2-Per amore

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                                                                                                                                                                                                Jasmine

La porta che dava all'interno del Palazzo sbatté rumorosamente, un suono confuso tra i borbottii e le urla irritate del Principe Achmed che stava sicuramente imboccando furioso la via del ritorno per il suo paese d'origine, qualunque esso fosse. Non ricordavo neppure se gliel'avessi chiesto, in fondo non m'interessava da dove provenisse così come non m'importava né di lui né degli altri cento, o forse più, pretendenti che avevano varcato quella stessa soglia e ne erano riusciti con la stessa arrossata espressione piena di vergogna.

Ma davvero quei damerini so-tutto-io credevano di potermi incantare con le loro belle storie e con tutti i regali che avrebbero potuto farmi con il loro denaro?

Ma con chi credevano di parlare? Ero la principessa Jasmine, figlia del Sultano di Agrabah, futura erede del trono reale! Non ero di certo una ragazzetta di paese che poteva incantare con un paio di bei regali!

Eppure, quelle semplici ragazzette di paese le invidiavo, in tutto e per tutto: non mi era mai interessato il denaro o il nome che portavo e che gravava sulle mie spalle come il Palazzo stesso.

Loro erano libere di scegliere, avevano la possibilità di andarsene ogni qual volta desiderassero, erano libere di...

«Jasmine!», mio padre mi chiamò più di una volta prima che io lo ascoltassi davvero e che mi voltassi verso di lui, seguita dai ringhi di Rajah, con ancora tra le fauci una parte del pantalone sgargiante del nostro ultimo ospite.

Ridacchiai tra me e me quando mio padre, nell'inutile tentativo di sfilarglielo dai denti, cadde a terra come un sacco di patate, borbottando nervosamente «Ecco perché il Principe Achmed era tanto infuriato!» e finalmente consapevole.

Allora non potei più trattenermi e, accarezzando il pelo tigrato di Rajah, risi di gusto.

«Oh, padre, Rajah stava solo giocando!», accarezzai il capo della tigre, sfilandole lo straccio dalle fauci, «Non è così, cucciolona?», questa parve quasi fare le fusa come un gattino e mi guardò con affetto, al contrario di mio padre che, perdendo ogni speranza, mi guardava seriamente arrabbiato, tamburellando le dita grassocce sull'abito bianco.

Finsi un colpo di tosse e posi la mia attenzione da un'altra parte sperando che, facendo così, riuscissi a non avvertire la delusione del suo sguardo su di me, ma inutilmente.

«Jasmine, mia cara, devi smettere di rifiutare ogni singolo pretendente senza neppure dargli un'occasione! La legge dice...», si lamentò facendosi più vicino.

In tutta risposta mi misi in piedi e mi allontanai da lui, indirizzandomi verso la gabbia degli uccelli.

«...che devi sposare un principe prima del giorno del tuo compleanno», ribattei infastidita.

«Esatto», borbottò, raggiungendomi.

«La legge è sbagliata», conclusi, aprendo un piccolo varco nella gabbietta ed afferrando delicatamente un uccellino dalle piume bianche e morbide.

«Ma hai solo tre giorni, Jasmine!», la sua voce mutò dall'irritato al preoccupato e mi si strinse il cuore. Ma cosa avrei dovuto fare, limitarmi semplicemente ad accettare quella legge nonostante fosse tanto sbagliata? Da generazioni la nostra famiglia si univa ad un'altra, una famiglia reale per una famiglia reale, un principe ed una principessa, così da mantenere puro il nome della famiglia.

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