12.3 Nella Storia..

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Origini storiche
La Fata è presente nelle fiabe o nei miti di origine principalmente italiana e francese, ma trova comunque, figure affini nelle mitologie dell'Europa dell'Est. Nell'originale accezione dell'Europa meridionale (senza influenze celtiche), è totalmente sovrannaturale, cioè non ha nulla di umano, se non l'aspetto.
Le Fate italiane sembrano ereditare i loro poteri ed il loro aspetto da alcuni personaggi della mitologia classica, principalmente dalle Ninfe e dalle Parche. Come le Ninfe, esse sono Spiriti naturali che hanno sembianze di fanciulla; come le Parche presiedono al destino dell'uomo, dispensando vizi o virtù.
Le prime Fate appaiono nel Medioevo, come proiezione delle antiche Ninfe, ma vengono per la prima volta ufficializzate verso la fine del Medioevo, e prendono l'aspetto classico delle dame dell'epoca, che indossavano ingombranti copricapi conici (hennin) e lunghi abiti colorati. Man mano, venne attribuita loro la verga (bacchetta) magica, che possiamo ritrovare anche nell'Odissea (Circe).
Successivamente, ogni fiabista ha aggiunto particolari al loro carattere. Una mirifica e significativa rappresentazione di come sono le Fate, la troviamo ne La bella addormentata sia di Perrault che dei Fratelli Grimm, ed ancora in Pinocchio, dove alle Fate viene ufficialmente assegnato il colore blu, colore del sovrannaturale e della Magia.

Fairies e Fate
Fondamentalmente, l'assonanza ha portato ad associare la Fata alla Fairy inglese e celtica (presente in diverse commedie dello stesso William Shakespeare), ovvero ad alcuni esponenti del Sidhe (il regno ultraterreno del Popolo Fatato delle leggende celtiche), piccoli e con le alucce, nonostante che, secondo molti, con costoro non abbiano assolutamente a che fare; la differenza sostanziale consisterebbe nel fatto che le Fate desiderano interagire con gli umani, mentre le Fairies preferiscono rimanere invisibili all'occhio umano.

Alcune credenze locali
Nei racconti popolari della Romagna, un posto di rilievo è dedicato agli Esseri Fatati.
Uno studio pubblicato nel 1927 da Nino Massaroli (Diavoli, diavolesse e diavolerie in Romagna) rappresenta quasi sempre la Fata, quale fiorisce nelle novelle del focolare romagnolo, sotto forma di una veccia-vecchina; pulita, linda, dall'aria casalinga e simpatica di nonnina (...) Essa ha un preciso e gentile incarico, un esatto compito: disfare i malefici delle streghe; difendere le creature prese di mira dai geni del male, dai mostri della notte (...) Le fatine romagnole amano mostrarsi sotto forme piccolissime (...) La fata romagnola abita nella cappa del camino, sulla quercia dell'aia, nei pignattini del pagliaio" (il pagliaio romagnolo s'erge sull'aia, a forma conica, retto da un'asta interna, sulla cui cima si pone un orinale od un pignattino per scongiurare le Streghe).
Le Fate romagnole dispensavano protezione in particolare ai bimbi appena nati. Per ricevere la loro benevolenza, occorreva svolgere vari rituali scaramantici, come quello di offrire pani bianchi o rosate focacce (...) durante il loro passaggio, che in vari luoghi dell'Alpe di Romagna, avviene alla vigilia dei morti, la notte di Natale o dell'Epifania, oppure recitare paròl faldédi (parole fatate) ed anche formule d'invocazione, che in Romagna Toscana usavano dire a propiziarsi la fata del mattino nel mettersi in viaggio, e che vive tutt'ora in bocca ai fanciulli romagnoli: "Turana, Turana - rispondi a chi ti chiama - di beltà sei regina - del cielo e della terra - di felicità e di buon cuore."

Alle Fate è dedicato un racconto ambientato nelle colline fra Castrocaro e Faenza:

« Sotto Monte Sassone, accanto ai ruderi del castello della Pré Mora (Pietra Mora), nel banco dello spungone sullo strapiombo della voragine del rio della Samoggia, fra le colline a monte di Faenza e Castrocaro nella zona di demarcazione dell'antico confine fra la terra del Papa e quella del Granducato, sono scavate le quattro grotte delle fate (chiamate anche busa - buca - e camaraz - cameraccie). Questa pietra era un prodigioso palazzo, nei lontani millenni delle fate che lo disertarono quando l'uomo non credette più alla poesia, ma vi lasciarono, pegno del ritorno, i loro magici telai d'oro, su cui l'anima tesseva le canzoni che nessuno sa più! E perché l'uomo non ne facesse sua preda, confidarono la guardia dei telai a un biscione che sibila minacce e con un soffio precipita nella voragine le ladre scalate, quando mai tentassero le porte inviolabili. »
(L. de Nardis, La Piè, 1925)

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