Parte 24_Caino

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La bulimia è come un marchio di Caino, eterno e invisibile, noto solo a chi lo porta addosso.

È una tossina al alto tasso inquinante.

È una malattia subdola e meschina che certe volte sa persino illuderti di essere riuscita a sconfiggerla quando invece è ancora lì in agguato, pronta a farti cadere nel tranello con parole suadenti.

Finire nel tunnel della bulimia significa perdere il controllo della propria vita, della propria mente.

Significa diventare schiavi di un masochistico e perverso meccanismo di autolesionismo e autodistruzione.

E quando ti rendi conto di essere rimasto intrappolato nella ragnatela della malattia è ormai troppo tardi.

È un gioco al massacro in cui vittima e carnefice sono la stessa cosa.

Un tempo pensavo che bastasse esserne consapevoli o aver fatto ammissione di colpevolezza per venirne fuori ma ho scoperto sulla mia pelle che mi sbagliavo.

Perché quando la trappola è già scattata, il topo è divenuto prigioniero, inghiottito da una spirale di sofferenza proiettata verso un baratro di cui non riesce a intravedere la fine.

E se ciò che mi impedisce di uscire fuori e di gridare aiuto è la vergogna, è sempre la vergogna che alimenta il fuoco della malattia e non mi fa guarire.

Solo chi è abbastanza forte da saltare l'ostacolo e trova il coraggio di aprirsi può sperare di invertire il senso di marcia.

Ma bisogna prima aver toccato il fondo.

Mentre io, invece, a quel fondo, temo di non esserci ancora arrivata.

Lara era consapevole di essere solo a metà strada di quella discesa verso gli inferi. Per di più stava attraversando una fase troppo delicata e difficile della propria esistenza: una ragazza di colpo sola, estremamente fragile e con un grave disturbo incancrenitosi nel tempo dentro la sua testa.

Un mix troppo pericoloso per una mente rimasta ormai senza difese immunitarie e quindi più facilmente a rischio di crolli di fronte alle inevitabili difficoltà che avrebbe incontrato lungo il suo percorso.

Era in queste condizioni che Lara era arrivata a Bologna.

Il distacco dal padre quel giorno, nella ditta della famiglia Morone, le stava dando un illusorio senso di liberazione, come se finalmente fosse riuscita a scrollarsi di dosso un peso incredibile.

- Mi raccomando, Lara. Ho molta fiducia in te. Te l'ho mai detto? - le fece con tono protettivo quando, al termine di quell'incontro, rimasero soli nel parcheggio per scaricare le valigie.

Ma la ragazza finse di non aver sentito mantenendo uno sguardo duro e sostenuto, fintamente concentrata a recuperare i propri effetti rimasti nell'auto.

- Mettiamo per un attimo da parte il nostro battibecco di prima - continuò Raffaele al quale dispiaceva separarsi in quel modo dalla figlia.
Non sapeva quando i suoi impegni lavorativi gli avrebbero consentito di rivederla e comunque quello rimaneva pur sempre un momento importante per loro, visto che lei non aveva mai vissuto lontano da casa per così tanto tempo. 
- Vorrei che ci salutassimo come padre e figlia e non come due perfetti estranei che hanno fatto solo un pezzo di strada insieme. Mi mancherai, lo sai? Posso almeno salutarti?

- No, non ho voglia di salutarti. Ti credo poco, lasciamelo dire. E non amo questa tua ipocrisia - gli disse mentre metteva in spalla un sacco pieno zeppo di roba - Tu comunque a me non mancherai affatto - proseguì senza guardarlo negli occhi - e ancora meno quella signora lì che non si è neppure degnata di accompagnarmi a Bologna anche solo per dimostrarmi che mi stessi sbagliando sul suo conto.

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