Caroline non disse nulla per tutto il tragitto verso casa, cosa strana, visto che... Beh, era Caroline!
«Allora... Ci vediamo», disse Caroline, a disagio, quando la macchina si fermò davanti all'edificio dove abitavo.
«Ti... Ti va di salire?», chiesi nervosa.
Le si illuminarono gli occhi e annuì energicamente, facendo sobbalzare come molle i suoi riccioli perfetti.
Sorrisi a mia volta e scendemmo dall'auto.
Aprimmo bocca solo quando arrivammo nel salotto del mio appartamento.
«Hai fame?», chiesi a Caroline.
Non c'era nessuno in casa, erano tutti a lavorare, quindi potevamo parlare tranquillamente. Non sapevo ancora se volevo che i miei genitori sapessero che avevo ricominciato a parlare...
«Un po'...», ammise Caroline, con un sorriso timido.
Le sorrisi di rimando e le feci cenno di seguirmi in cucina. Era l'ora di pranzo, eppure mi sembrava che da quando ero uscita da quell'appartamento, quella mattina, fossero passate settimane, non poche ore.
Dopo l'approvazione di Caroline cominciai a preparare il pranzo: semplice pollo fritto e insalata, non mi andava di mettermi a cucinare ricette elaborate.
Mandai anche un SMS a Ward, informandolo di non venire a prendermi a scuola
«Come ti senti?», chiese la mia compagna, dopo aver finito di mangiare.
Rimasi spiazzata dalla domanda. Da quando era iniziata tutta quella storia nessuno si era preoccupato anche solo di chiedermi come mi sentissi. Tutti continuavano a dirmi cose assurde, cose che non avevano senso, mi dicevano che ero la reincarnazione di una qualche dea, ma nessuno si era preoccupato di chiedermi come mi sentissi...
Mi strinsi nelle spalle, stringendo le labbra in una linea dura, la testa china per nascondere le lacrime che mi erano salite agli occhi – ultimamente non facevo altro che piangere, dannazione!
«Alexia?», la voce di Caroline era strana, come implorante. Non risposi nemmeno stavolta, guardai altrove, per non incrociare i suoi occhi. «Alexia, ti prego, parlami...», disse disperata.
Scossi la testa e mi girai, dandole le spalle, perché le lacrime che avevano cominciato a scendermi lungo le guance.
«Guardami, ti prego, guardami», era una preghiera la sua.
Potevo esaudire la sua richiesta?
«Posso aiutarti», continuò. «So esattamente come ci si sente ad essere la nuova arrivata. Io sono stata l'ultima ad arrivare qui, prima di te. Avevo undici anni quando ho attivato il mio potere». Perché mi stava dicendo queste cose?
«Eravamo andati a fare un escursione nell'oceano, a bordo di una piccola barca. Mamma aveva detto che non era un buon momento per uscire in mare aperto, poiché le acque erano irrequiete quel giorno, ma mio padre insistette per uscire e portare anche me». Non vedevo il suo viso, ma dalla voce capivo che era lontana, in un passato in cui, anche se per poco, tutto era normale. «Ci fu un incidente... Io e mio padre fummo sbalzati in acqua e un'onda ci sommerse. Nessuno dei due portava un cavolo di giubbotto salvagente, che sconsiderati! Non riuscivamo a risalire a galla, con la corrente che ci trascinava in mille direzioni, ma riuscimmo a rimanere uniti, con mio padre che mi teneva per mano, nel tentativo di trascinami con se in superficie. Era la fine, me lo sentivo... E se lo sentiva anche lui. Ci abbracciammo, e in quel momento l'unico mio desiderio era Ti prego, fa che papà si salvi!».
Mi girai, esterrefatta da quella storia. Mi immaginai una bambina di undici anni disperata che appena prima di morire voleva solo che suo padre si salvasse.
«Non ce la facevo più, i polmoni mi bruciavano alla disperata ricerca di aria. Quando alla fine mi arresi, invece che acqua nei miei polmoni entrò ossigeno. Potevo respirare normalmente!», adesso nella sua voce c'era della meraviglia. «Ma questa non fu l'unica cosa strana che successe. Anche mio padre poteva respirare e, mentre eravamo uniti nell'abbraccio, una corrente ci porto a galla. Riuscimmo a trovare la nostra barca e a tornare a riva. Il giorno dopo arrivarono Aaron e Tom, così ci trasferimmo qui», concluse con un sospiro.
Ero spiazzata da quella storia, così inverosimile, così diversa dalla mia, eppure così simile...
«Non rinchiuderti in te stessa, per favore. Hai appena ricominciato a parlare, non ritornare in quel silenzio opprimente».
Che ne sapeva lei di cosa succedeva ogni volta che avevo provato ad aprire bocca? Cosa ne sapeva lei di come era difficile, per me, continuare ad andare avanti, ogni giorno, come se nulla fosse? Come se non fossi stata io a rovinare la mia famiglia? Lei aveva salvato la sua famiglia, mentre io non avevo fatto altro che distruggerla.
«Come mai non parli? Aiutami a capire. Dimmi cosa è successo e io ti aiuterò ad affrontare tutto ciò che verrà. Ma se non me lo dici non posso aiutarti...»
Poteva davvero aiutarmi? E come? Nessuno era a conoscenza del dolore che mi portavo dietro da dodici anni, nemmeno i miei genitori. Poteva davvero aiutarmi parlarne con qualcuno? Le persone pensano di sì. Avevano provato a mandarmi da uno psicologo, ma, ovviamente, non avevo mai aperto bocca, perciò ci avevano rinunciato.
Di sicuro quando avrebbe scoperto la verità non mi avrebbe più guardata in questo modo. Non l'avrebbe fatto nessun altro. Nessuno mi avrebbe guardata come se fossi la vittima della situazione. Io ero il mostro che aveva fatto quelle cose orribili!
La parola mi uscì in un sussurro, da sola, senza che ebbi il tempo di decidere se parlarne o no. Ma evidentemente il mio cervello aveva già deciso che, dopo dodici anni, era il momento di confidare la mia storia a qualcuno.
«Hope».
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Destiny's Choise
FantasyAlexia Reed non è una ragazza come le altre: lei non parla. Ha smesso di parlare dodici anni prima, quando, a sette anni, ha avuto un incidente. Da allora la sua vita è avvolta nel silenzio. Ma è a Manhattan, città in cui i suoi genitori hanno decis...