Capitolo Quattordici

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La portai in camera mia, l'ultima porta in fondo al corridoio, e la guidai dentro. Appena entrati nella stanza, sulla sinistra, vi era la mia cabina armadio – mezza vuota, e con dentro per lo più jeans e maglioni – , svoltando l'angolo di un piccolo corridoio, la camera si apriva davanti a noi.

Restai in silenzio mentre Caroline si guardava intorno.

Sulla sinistra c'era la porta del bagno che avevo in camera – in questa casa c'erano tre bagni, due dei quali erano nella camera da letto mia e dei miei genitori. Accanto alla porta del bagno c'era una scrivania ancora nuova di pacca – vivevo da così poco lì che non avevo nemmeno avuto il tempo di arredare (o mettere in disordine) la mia nuova camera – sovrastata da scaffali su cui avevo già messo i miei vecchi libri. Le pareti della mia stanza erano colorate con una strana combinazione di celeste, azzurro, blu e tutte le loro sfumature, sembrava di ammirare un fondale marino in cui si rifletteva la luce del sole: era la cosa che più adoravo in quella camera! Sul pavimento c'era lo stesso parquet chiaro presente nel resto della casa, ma coperto da un soffice tappeto color panna. Attaccato alla parete in fondo alla stanza, vi era il mio letto enorme, con sopra tanti morbidi cuscini – la notte mi piaceva essere circondata da cuscini – con la morbida testiera dello stesso colore del tappeto e un copriletto navy. Davanti al letto c'era un enorme specchio che faceva sembrare la camera ancora più grande di quello che già era.

Ma l'unica ragione per cui avevo questa camera, che in origine sarebbe dovuta andare a i miei genitori, era perché loro avevano notato come mi si erano illuminati gli occhi alla vista della parete di fondo che era ricoperta di enormi finestre che davano su un terrazzo – a cui si poteva accedere da quella stanza – che si affacciava su una splendida Manhattan.

«Wow», fece Caroline, a bocca aperta. «Facciamo a cambio di stanza?», chiese e poi scoppiò a ridere.

Feci un mezzo sorriso, indicandole di accomodarsi sul letto.

«Allora... Cosa sarebbe questo addestramento di cui ha parlato Tom?», chiesi una volta seduta sul letto.

«Beh... Ci sono due tipi di allenamento.», cominciò a elencare Caroline sulle dita. «Uno consiste nell'allenamento fisico e imparare a combattere – dobbiamo imparare a difenderci da chiunque, che sia da un potente mago o un ubriacone. Mentre l'altro allenamento è più complicato. Impari a tenere sotto controllo il tuo potere, a manipolare gli elementi e persino a generarli, non so se mi spiego. In più imparerai persino a sfruttare i tuoi poteri in maniera più ampia».

La guardai con espressione incerta. Che cosa intendeva con sfruttare i poteri in maniera più ampia?

«Mmm... Come posso spiegartelo?», si chiese Caroline, grattandosi la tesa coperta di ricci ramati. Le lentiggini le danzavano sul viso mentre arricciava il naso in un'espressione concentrata. Con gli occhi osservava il soffitto, come ci fossero scritte le parole giuste con cui spiegarsi, quegli occhi blu come una pietra preziosa, come l'oceano. «Prendi come esempio Matt: il suo elemento è l'aria e lui riesce a manipolare l'aria intorno agli oggetti in modo da farli spostare con solo la forza del pensiero!».

Rimasi a bocca aperta. Poter far alzare un po' il vento – come era successo a me qualche volta – era un conto, era una cosa che ero riuscita a fare anche senza dovermi allenare, ma spostare gli oggetti con la mente era un altro paio di maniche. Chissà quanto allenamento ci era voluto per Matthew per far spostare, anche di poco, un oggetto!

«Già!», rispose Caroline, come se mi leggesse nel pensiero. «Fantastico è dir poco. Matt sta provando a spostare se stesso, ma forse non è possibile fare una cosa del genere», concluse.

Vagai con lo sguardo per la stanza. Forse ero arrivata al limite. Per oggi avevo fatto il pieno di informazioni: se ne avessi ricevuta un'altra penso che mi si sarebbe fuso il cervello.

Un cellulare prese a suonare.

«Pronto?», rispose Caroline, tirandolo fuori da una tasca dei jeans. «Sì... Va bene, mamma, arrivo». Riattaccò e mi guardò. «Scusa, non mi ero resa conto di che ore fossero. Devo andare a comprare delle cose per preparare la cena, visto che mia mamma è impegnata a distruggere la casa». Alzò gli occhi al cielo.

«Non ti devi scusare». Mi alzai in piedi e le sorrisi.

Lei mi imitò e andammo insieme verso la porta di casa.

«Grazie per il pranzo», disse dopo essersi messa il giubbotto. «Questo è il mio numero. Se hai bisogno di qualsiasi cosa e se hai domande non esitare a scrivermi o anche a chiamarmi», mi fece l'occhiolino porgendomi un foglio su cui aveva appena scribacchiato il proprio numero.

Io lo presi, imbarazzata. Non sapevo proprio come comportarmi in queste situazioni. Borbottai un grazie e misi il bigliettino in tasca appena prima che Caroline mi prendesse e mi stringesse in un abbraccio.

Impacciata, ricambiai. Non ero abituata a ricevere numeri da amiche, figuriamoci essere stretta tra le braccia!

«Ciao», trillò Caroline, poi si girò e uscì dalla porta.

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