Capitolo Venti

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«Sei contento ora?». Jason mi guardava con occhi spalancati, increduli. Mi liberai dalla sua stretta e mi allontanai un po' da lui, guardandolo con disprezzo per avermi fatto dire quelle cose contro la mia volontà. «Ecco cosa ho fatto con questi maledetti poteri, ecco perché non li voglio! Mia sorella è morta per colpa di questi poteri, io la ho uccisa! Come vedi, Jason, tu non sai nulla di me... nulla!».

Jason aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Si portò le mani alla testa e intrecciò le dita ai propri capelli, sconvolto. Poi le fece scivolare in giù, fino a fermarsi davanti alla bocca. «Oddio... Alexia, scusami, non immaginavo...».

«No, infatti!», lo interruppi. «Ti avevo detto di lasciarmi in pace. Ti avevo detto di non insistere. Ma tu invece no... Dovevi continuare! Dovevi sapere!». Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Adesso capirai perché non mi fa tanto piacere parlarne».

Lui mi raggiunse e prima che potessi accorgermene mi aveva circondata con le sue braccia.

Per un attimo rimasi impietrita. Lui mi odiava. Io lo odiavo. Perché tutto questo interesse?

Ma poi le lacrime cominciarono a scorrermi sulle guance, perciò mi abbandonai al pianto, poggiando la mia testa sul suo petto e lasciandomi cullare dalle sue braccia.

«Andrà tutto bene», mi sussurrò con le labbra premute sui miei capelli. «Sistemeremo tutto, te lo prometto».

Scossi la testa contro il suo petto. «No! Niente si può più sistemare».

«Shh... Calmati adesso», mi accarezzò i capelli.

Non avevo idea di quanto tempo rimanemmo così abbracciati, sapevo soltanto che ci ritrovammo in qualche modo distesi sul mio letto, con lui che continuava a cullarmi e a ripetermi che tutto si sarebbe sistemato, in un modo o nell'altro.

Dopo quelli che sarebbero potuti essere secondi come ore, mi calmai. Alzai la testa e, con gli occhi arrossati, guardai quelli verdi di lui. «Rimani qui con me?», gli chiesi.

Lui mi sorrise e annuì. «Ma certo».

Ci alzammo e ordinammo una pizza.

Mentre aspettavamo, ci spostammo in cucina. Sentivo i suoi occhi addosso, a controllare ogni mio singolo movimento, come se da un momento all'altro si aspettasse di vedermi crollare di nuovo.

«Ne vuoi parlare?», mi chiese, cauto.

Ovviamente sapevo a che cosa si stesse riferendo. Scossi la testa. «Tu come hai scoperto i tuoi poteri?», chiesi invece.

«Vivevo in New Jersey», cominciò a raccontare, «avevo sette anni e a quel tempo facevo parte dei boy scout». Provai a immaginarmelo con la divisa dei boy scout e mi scappò un sorriso. Lui se ne accorse e mi sorrise di rimando. «Mi avevano obbligato i miei», si giustificò. «Comunque, eravamo usciti per il fine settimana a fare un'escursione e, l'ultima notte, il vento si alzò più del previsto, scatenando un incendio col nostro piccolo falò. Tutti eravamo fiduciosi nel nostro istruttore, ma presto ci rendemmo conto che quell'incendio era indomabile. Gli altri si fecero prendere dal panico così che nessuno si accorse di me che mi ero avvicinato istintivamente al fuoco. Aveva come un richiamo per me, così ci posai la mano sopra e scoprii che non mi bruciava. Piano piano le fiamme iniziarono ad affievolirsi, seguendo il mio volere, fino a quando non si spensero. Nessuno scoprì mai cosa successe quella sera, e non lo capii nemmeno io fino al momento in cui si presentarono a casa mia Aaron e Tom. Dopo di ché passò poco tempo che mi trasferii qui con la mia famiglia. Io fui il primo».

Avevo ascoltato la sua storia rapita. Anche io avevo scoperto i miei poteri con il fuoco, ma questi avevano sortito l'effetto opposto al suo. I miei poteri avevano ucciso, i suoi, come quelli di Caroline, avevano salvato.

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