«Speranza?». Caroline era visibilmente confusa, come darle torto.
Le feci segno di seguirmi e la portai con me nella camera dei miei genitori. La stanza era molto spaziosa, i mobili e le pareti erano bianche, ma la testiera del letto dava un po' di colore alla stanza con quel verde pastello.
Mi fermai davanti a un cassettone bianco, sormontato da un enorme specchio. Sopra questo cassettone c'erano un sacco di fotografie di quando ero piccola...
Presi una foto di famiglia, in quell'immagine avevo più o meno cinque anni. Mio padre, alto, biondo, con gli occhi azzurri era l'esatto opposto di mia madre, con quella carnagione olivastra, i capelli neri e gli occhi altrettanto scuri, eppure in quella foto si vedeva quanto si amassero... Erano seduti sui gradini della veranda della nostra vecchia casa a Elmira, si abbracciavano e si sorridevano a vicenda.
Sotto di loro c'erano due bambine, anche loro completamente diverse, eppure uguali. La più piccola delle due era seduta sotto il padre, la carnagione olivastra, come quella della madre, i capelli lisci castano dorati, gli occhi marroni – seppur non scuri come quelli della madre, ma un color cioccolata, caldo – erano illuminati da una scintilla di divertimento, di amore... quel genere di scintilla che può dare solo l'innocenza di un bambino.
L'altra bambina, invece, quella più grande, aveva la carnagione candida come quella del padre, arrossata sulle guance, i capelli, a differenza di quelli della più piccola, erano ricci e scuri, ma gli occhi erano dello stesso color cioccolato.
La più grande abbracciava la più piccola con fare protettivo, come se quell'abbraccio avrebbe potuto proteggerla da qualsiasi cosa...
Caroline osservò l'immagine attentamente.
«Ma questa...», avvicinò la foto agli occhi. «Questa è tua madre!», disse indicando la donna.
Annuii.
«E questa sei tu?», chiese incredula, indicando la bambina più piccola.
Annuii di nuovo, in silenzio, girando la testa da un altra parte, per non guardarla in faccia.
«Quindi questo è tuo padre, suppongo. Ma questa bambina...», si bloccò di colpo. Ovviamente stava facendo due più due. «È tua sorella questa bambina?».
Chiusi gli occhi e annuii sospirando. Faceva male sentirselo ricordare.
«E dov'è adesso?».
Mi girai e la guardai con gli occhi pieni di dolore. Sentii che il labbro inferire cominciava a tremare e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
«Oddio!». Caroline si portò una mano alla bocca, evidentemente questa non era la risposta che si aspettava. Allungò le braccia e abbracciò. «Mi dispiace tanto», mi sussurrò mentre mi stringeva a sé.
Mi lascia cullare dalle sue esili braccia, come una bambina.
«È lei Hope», dissi quando sciolse l'abbraccio. Mi sedetti sul letto e feci segno alla ragazza di accomodasi. «Eravamo veramente molto unite. Aveva tre anni in più di me e pensava che avrebbe dovuto proteggermi da qualsiasi cosa. Quello, secondo lei, era il suo dovere. Quando ero malata dormiva sempre vicino al mio letto, perché aveva paura che mi sentissi male durante la notte...», sorrisi, scuotendo la testa. «Era la mia migliore amica, e a lei non sembrava dispiacere passare del tempo con me, nonostante fossi la sorella minore. Mi insegnò a nuotare, quando ero piccola. Era la figlia perfetta! Faceva sempre i suoi compiti e si assicurava che li facessi anche io. Apparecchiava sempre la tavola e mi portava sempre un pezzo della cioccolata che la mamma le metteva nel borsone di pallavolo». Ricordare faceva davvero male! Non parlavo di lei da dodici anni e tutti cercavano di non parlare di lei in mia presenza.
«Una sera di dodici anni fa i miei genitori uscirono con degli amici e mi lasciarono sola a casa con Hope. All'epoca io avevo sette anni e lei dieci, ma era molto più matura e responsabile di una normale bambina di dieci anni, perciò i miei si fidarono di lasciarci sole a casa. Quella sera mi vennero a chiamare delle amiche di scuola, chiedendomi se volevo andare con loro a casa di Natasha, la quale stava facendo un pigiama party. Io ero emozionantissima per quella festa, perciò andai da Hope. Ero convinta che mi avrebbe lasciata andare, invece me lo negò. La scongiurai, la pregai in tutti i modi di lasciarmi andare a divertirmi con le mie amiche, ma lei mi disse che non poteva lasciarmi andare, che io ero sotto la sua responsabilità e quindi dovevo rimanere con lei. A quei tempi non capivo, ero solo una bambina, perciò mi arrabbiai con lei. Le dissi delle cose orribili. Le urlai contro mentre rientravo in camera mia e sbattei la porta. Non ci volle poco perché la casa si ritrovasse avvolta tra le fiamme. Mi ero rintanata in un angolo di camera mia quando Hope entrò e accompagnò alle scale per arrivare alla porta d'ingresso». Le lacrime scendevano sulle mie guance come cascate. «Solo una volta fuori mi resi conto che lei non era al mio fianco, come sempre. Stavo per rientrare dentro da lei, quando i vicini mi bloccarono l'accesso alla casa e mi trascinarono via. Quando arrivarono i soccorsi era troppo tardi, Hope era già morta. Hope è morta per colpa mia». Era la prima volta che lo dicevo a qualcuno. «Io ho ucciso mia sorella!». E venni sommersa dai singhiozzi, mentre il dolore mi assaliva, come la prima volta.
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Destiny's Choise
FantasyAlexia Reed non è una ragazza come le altre: lei non parla. Ha smesso di parlare dodici anni prima, quando, a sette anni, ha avuto un incidente. Da allora la sua vita è avvolta nel silenzio. Ma è a Manhattan, città in cui i suoi genitori hanno decis...