Ero seduta alla mia scrivania a cercare di fare i compiti, ma non riuscivo a concentrarmi. Caroline era andata via da più di due ore e io avevo pensato di avvantaggiarmi coi compiti, ma non ero riuscita a fare niente.
Chiusi tutto e mi alzai. Era inutile stare seduta alla scrivania a non fare nulla, tanto valeva cominciare a preparare la cena.
Aprii il frigorifero per decidere cosa preparare. Stasera c'era anche mio padre a cena, perciò optai per fare un piatto di cui andavo matta da quando me lo fecero assaggiare i miei genitori in un ristorante italiano: pasta al salmone.
Mi misi a sedere e cominciai a tagliare il salmone.
Nella testa mi frullavano tutte le informazioni che avevo acquisito oggi.
Che cosa devo fare?, mi chiesi. Poteri magici...
Da piccoli è facile credere alla magia. Un bambino vede un pizzico di magia in tutto ciò che accade nel mondo. Guarda i cartoni animati con quel supereroe che gli piace tanto e sogna di avere anche lui dei poteri, di avere qualcosa di magico. Gioca coi suoi amici facendo finta di avere un potere e, con quel potere, di sconfiggere il cattivo.
Quando ero più piccola lo facevo anche io quel gioco, insieme ad Hope.
Poi però si cresce, e ci viene sbattuta in faccia una realtà. Una realtà amara, rude.
Una realtà dove non vincono sempre i buoni. Dove non muore solo chi è cattivo. Dove chi muore, muore e basta, non può essere riportato in vita. Dove non ci sono formule magiche per tornare indietro nel tempo. Dove, fatto uno sbaglio, questo ti seguirà per sempre. Dove non c'è la netta distinzione tra buoni e cattivi. Dove non c'è giustizia.
E una volta accettata questa realtà vedi il mondo come realmente è; una volta accettata, anche volendo, non puoi più chiedere di tornare indietro.
Sono dodici anni che io ho accettato la realtà.
Mi ha colpita in faccia come uno schiaffo quando mia sorella è rimasta dentro quella casa in fiamme. Non potevo accettare la magia in questo mondo, quando non c'era nemmeno la giustizia.
Hope era morta e con sé si era portata anche la magia, la spensieratezza, l'allegria... La speranza.
La lama che incise il mio indice mi riportò alla realtà. Lasciai cadere il coltello e strinsi il dito nell'altra mano. Mi alzai e andai a mettere il dito sotto l'acqua.
Il sangue sul dito veniva lavato dal getto d'acqua, e io mi ritrovai a fissare delle gocce di sangue che mi avevano macchiato l'altra mano.
Non poteva essere lo stesso sangue che era appartenuto a una dea nella sua vita mortale. Era troppo comune, troppo umano, per appartenere a un essere tanto potente.
Di sicuro avevano commesso un'errore, io non centravo nulla con loro.
Infilai anche l'altra mano sotto l'acqua e mi lavai via ogni traccia di sangue. Avvolsi il dito in un cerotto e finii di preparare la cena.
* * *
Più veloce!, urlava una voce nella mia testa. Sta arrivando! Più veloce, o ti prenderà!
Correvo più veloce che potevo, ma non avevo più fiato. Continuavo a inciampare e avrei voluto fermarmi per riprendermi, ma se lo avessi fatto mi avrebbe presa e sarei morta. Non osavo nemmeno guardarmi indietro.
Scappa!, non facevo che ripetermi.
Svoltai un angolo, non sapendo dove andare e quasi finii con la faccia per terra. I polmoni mi andavano a fuoco; non sarebbero durati ancora a lungo, ma io continuai a correre.
Svoltai un altro angolo e capii dove mi trovavo: ero nella vecchia via di casa mia, a Elmira, e in fondo alla strada vidi casa mia.
Cercai di sopportare il dolore, consolandomi col fatto che una volta a casa sarei stata al sicuro.
Correvo, correvo, mancava poco al vialetto di casa mia. C'ero quasi!
Sentii qualcosa toccarmi la schiena.
Soffocai un grido e mi lanciai in avanti nel vialetto e su per i gradini. Inciampai mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
Ero senza fiato. Ci ero riuscita, ero scappata alla morte.
Mi staccai dalla porta, affannata, e mi guardai in giro nel salotto. Tutto era uguale all'ultima volta che l'avevo visto: il telo verde sul divano, le foto posate sotto il mobile del televisore, i quadri sui muri, le riviste posate sul tavolino davanti al divano...
Mi girai e vidi che la porta si stava riaprendo. Mi gettai su di essa con tutto il mio peso e la richiusi, ma ogni volta che mi allontanavo dalla porta, questa si riapriva.
Ero nel panico! Sentivo dei tonfi dall'altra parte della porta e sapevo che stavo per morire.
Mi staccai dalla porta con uno slancio e mi gettai sulle scale dall'altra parte della stanza e salii al piano di sopra, dove c'era la mia vecchia camera da letto mi ci chiusi dentro, ma anche questa porta non voleva saperne di restare chiusa. Anche quando giravo la chiave nella serratura c'era sempre qualcosa che non andava.
Le porte non volevano chiudersi.
Un colpo si abbatté sulla porta e io urlai, buttandomi su di essa con tutto il mio peso per riuscire a tenerla chiusa. Poi un altro, e un altro ancora. Al quarto colpo la porta si spalancò e io fui sbalzata indietro, mentre urlavo, sapendo che di lì a poco sarei morta.
Mi svegliai un attimo prima di toccare la moquette della mia vecchia camera da letto, tutta sudata e mi guardai intorno confusa.
Ero a Manhattan. Nessuno stava cercando di uccidermi: ero al sicuro.
Ributtai la testa sul cuscino, stravolta. La sveglia sul comodino segnava le tre di notte – mi ero addormentata appena due ore prima – , eppure dalla finestra penetravano i suoni della città che non dormiva mai.
Mi rigirai nel letto, cercando di riprendere sonno, ma ogni volta che chiudevo gli occhi mi ritrovavo a scappare ancora da quella morte che mi perseguitava.
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Destiny's Choise
FantasyAlexia Reed non è una ragazza come le altre: lei non parla. Ha smesso di parlare dodici anni prima, quando, a sette anni, ha avuto un incidente. Da allora la sua vita è avvolta nel silenzio. Ma è a Manhattan, città in cui i suoi genitori hanno decis...