Quando arrivò Fra Silvestro, Filippo era ancora in ginocchio con lo sguardo assente, con accanto a lui accovacciato un lupo grigio che gli leccava le mani tenute penzoloni e poco più in là il cavallo che brucava calmo l'erba dei campi. Come si avvicinò Fra Silvestro, Occhi-gialli lesto, scappò via.
“Filippo, Filippo! Che Dio ci salvi! Filippo!”.
Il ragazzo inebetito guardava nel vuoto.
“Filippo! - Gridò allora Fra Silvestro scuotendo le spalle del giovane - Dio Santo! Filippo!”.
Il giovane uscì lentamente da quella specie di torpore.
“Fra Silvestro sei tu. - balbettò - Cosa è successo...”.
S'abbracciarono in silenzio.
“Gli imperiali, le truppe di Cristiano di Magonza, sono arrivati all'improvviso, erano in molti, volevano tutte le bestie, il grano, tutto quello che c'era da mangiare, tuo padre ha tentato di parlare, ma l'hanno sgozzato davanti ai tuoi fratelli, senza pietà, dicendo che nessuno può osare opporsi all'Imperatore. Non erano uomini ma belve assetate di sangue. Ci hanno portato via tutto, ci hanno risparmiato la vita solo perché eravamo religiosi. Giovanni l'hanno portato con loro come coscritto ausiliario, praticamente come schiavo. Giacomo, tuo fratello più piccolo l'hanno lasciato qui, l'abbiamo preso con noi... non devi preoccuparti per lui, ne faremo un buon frate. Vieni, ti porto da lui, ma cerca di stare calmo, ancora non si è ripreso del tutto”.
Mentre si recavano verso il piccolo convento, Filippo sentiva dentro sé insorgere un'irrefrenabile rabbia, già immaginava la sua spada spaccare il cuore dell'artefice di tutto questo scempio: l'arcivescovo di Magonza. Quell'uomo meritava non una ma mille morti.
Filippo cercò di mostrarsi forte alla presenza del fratello, lo abbracciò e lo consolò; per essere d'esempio al fratello non versò nemmeno una lacrima. Rassicurò Giacomo che la cosa migliore per lui era davvero rimanere con i frati, gli avrebbero assicurato un'istruzione e un futuro sicuro. Cenò con loro, in refettorio, raccontando le sue piccole avventure di aspirante Templare e per qualche ora dimenticarono le loro disgrazie; per l'occasione, Fra Silvestro permise persino che si bevesse qualche bicchiere di vino per scacciare la tristezza del momento.
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L'indomani, dopo le lodi, Filippo salì in paese, percorrendo la solita strada che conduceva a Porta dell'Ulivo. Appena oltrepassato il grande arco in pietra, rimase immediatamente colpito nel vedere l'officina del fabbro distrutta.
“Ehi tu! - Una guardia si avvicinò - Non ti ho mai visto da queste parti, chi sei e che cosa vuoi?”.
“Vengo dal contado, sto cercando il fabbro”. Rispose con tono dimesso il ragazzo, guardando in terra. La guardia scoppiò in una volgare risata:
“Il tuo fabbro è a spalare carbone all'inferno, non lo sai che l'imperatore ha schiacciato più di qualche pidocchio papalino in questo sputo di paese?”.
Dicendo questo il soldato sputò sui piedi di Filippo che a stento represse un moto d'ira.
“Dai, sgombra, vai a farti impiccare altrove”. Aggiunse la guardia con disprezzo. Filippo non se lo fece ripetere due volte e si affrettò a salire in paese. C'era poca gente in giro, i sopravvissuti si aggiravano indaffarati per i vicoli cercando di tornare a una vita normale. Cristiano di Magonza, dopo aver costretto i superstiti a giurare fedeltà all'imperatore e a Pasquale III, era partito già da molto tempo. Aveva nominato come balivo uno dei suoi luogotenenti, lasciando nel paese una guarnigione di un centinaio di uomini, nel timore che i Conti di Ceccano potessero approfittare del momento di debolezza di Castrum.
Ottenute con discrezione queste poche informazioni, Filippo tornò al piccolo convento di S. Benedetto, e dopo aver abbracciato commosso il fratello, ricevuta la benedizione e gli auguri di Fra Silvestro, partì verso Ambrise con l'animo colmo di tristezza e di rabbia.
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Filippo aveva visto crollare i pilastri della sua vita in pochi istanti, mentre cavalcava sulla strada per Ambrise, non riusciva a scacciare via l'immagine desolata della fattoria distrutta con il padre agonizzante in una pozza di sangue. Dolore e odio bloccavano il fluire di ogni altro pensiero che non fosse di vendetta. Giunto sull'altopiano, nei pressi della casa del pastore si sentì chiamare da lontano, era Lucia, un raggio di luce in quel giorno oscuro. Il ragazzo la raggiunse, scese da cavallo e la guardò negli occhi.
“Mio Dio, che ti è successo?”. Disse la ragazza.
Non finì nemmeno la frase che già Filippo s'era avvinghiato a lei quasi a soffocarla; scosso da profondi singhiozzi, con il volto irrorato da lacrime, tutto tremante, tra un singhiozzo e l'altro, balbettò il suo dolore. Lucia, impotente al cospetto di tale tragedia, con un'innata sapienza di madre e di donna, senza dire nulla incominciò ad accarezzarlo e a baciarlo sulla fronte e sulle guance, fino a che le labbra di lui bagnate e salate di lacrime si accostarono alle sue. Come travolti da un fiume in piena, i due si baciarono e si accarezzarono a lungo con intensa passione.
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Il segreto di Ambrise
Historical FictionTra gli intrighi generati dal braccio di ferro tra papato e impero germanico (XI sec.), nello scenario del Lazio meridionale, durante la distruzione della fortezza del villaggio di Castrum da parte delle truppe dell’Imperatore Federico Barbarossa, u...