Capitolo II

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Il giorno dopo Filippo, indossati i suoi stracci migliori, arrotolate attorno alle gambe le lunghe stringhe di cuoio che tenevano i calzari, salì verso il paese. Giunto alla Porta dell’Ulivo che di giorno era aperta e sorvegliata, disse al soldato di guardia quanto accordato col padre. L’armigero chiamò un suo compagno ed entrarono insieme nel borgo. Dopo la grande porta a due ante, sulla sinistra c’era l’officina di Angelo il fabbro. C’era stato anche dentro una volta, col padre ad aggiustare la punta dell’aratro. Il fabbro era molto simpatico, cantava sempre, aveva una voce chiara e forte, sovrastava persino il rumore del martello che batteva il ferro rovente.

Man mano che saliva verso la cima del paese verso la residenza del balivo, il puzzo di piscio e di escrementi gli stringeva la gola, era un mese che non pioveva e il sole, anche se inverno, picchiava forte. L’odore dei rifiuti in decomposizione buttati tra le strette delle case era nauseabondo. Filippo pensò che anche il suo tugurio puzzava, con le pecore e il bue lì accanto non poteva essere altrimenti, ma d’inverno le bestie facevano caldo, ed era un’altra puzza, una puzza alla quale lui era abituato, quella degli uomini era differente e non gli piaceva affatto.

All’interno del borgo c’era un’altra cinta di mura che circondava la cittadella. Una volta entrato, notò che le donne sembravano più pulite e si riusciva a distinguere persino il colore delle loro vesti, ma l'odore era altrettanto nauseabondo. Le case erano tutte in pietra e per i vicoli incontrava spesso uomini armati.

Nella residenza del balivo, un’imponente costruzione in pietra a due piani ai piedi della roccaforte, Filippo venne accompagnato nella sala dei giudizi. La pergamena recava il sigillo del Principato di Antiochia ed era indirizzata al Papa in persona. Appena il balivo la lesse impallidì per un attimo e assunse immediatamente un’aria preoccupata. Si avvicinò a Filippo scrutandolo dalla testa ai piedi.

“Sei sicuro che non hai visto nessun altro oltre il cavaliere?”.

“Sì, mio signore!”.

“Ti ha dato qualcos'altro?”

“No, mio signore!”.

“Angeli del paradiso! Non ti ha detto niente altro?”.

“No, mio signore”.

“Sei sicuro?”.

“Sì, mio signore”.

“Dio santo! Basta con questo 'mio signore'. E poi è andato via?”.

“Sì, mio signore”.

“Basta, basta! Stupidi e puzzolenti, ma voi zappaterra non vi lavate mai? Presto, dategli due denari per il servigio reso e portatelo via. E per favore ragazzo - aggiunse - vatti a lavare. Guardia! Chiama immediatamente il comandante del forte, e il priore del Tempio, svelto”.

Filippo avrebbe voluto rispondere, ma seguì alla lettera le istruzioni di suo padre e stette zitto, con lo sguardo fisso per terra. Fece bene perché il balivo era un tipo dalla gogna facile, in modo speciale con la gleba. Il ragazzo accennò un inchino e uscì fuori dall’edificio. Alla luce del sole si sentì rinascere. Aveva davanti a sé la roccaforte e sentiva nitidi gli ordini impartiti in piazza d’armi.

**

Sollevato, Filippo percorse la strada a ritroso e si fermò a bere alla fontana appena fuori dalla Porta dell’Ulivo. Contento di respirare aria pulita si sdraiò per terra a riposare e si mise a fantasticare come era suo solito. Pensava al cavallo, alle armi; sognava battaglie, onori e vittoria. Ma il sogno suo più grande era entrare in Gerusalemme con la croce sul petto, per inginocchiarsi in raccoglimento davanti al Santo Sepolcro.

Uno spruzzo d’acqua gelida improvvisamente lo riportò alla realtà.

“Pippetto, che fai, dormi? Nostro padre è preoccupato, presto, torniamo a casa”.

Giovanni, il fratello maggiore, era venuto a cercarlo e i due di buon passo si avviarono verso casa.

Il segreto di AmbriseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora