La mattina successiva, dopo aver salutato i frati del piccolo convento e i suoi fratelli, Filippo scambiò un lungo abbraccio con il padre:
“Prima di partire dammi la tua benedizione”.
“Figlio mio, non scordare i miei insegnamenti. Anche se ora sai che scorre sangue nobile nelle tue vene, ricorda bene: non sono i titoli che precedono il nome, né le ricche vesti, né le armi possedute, né il sangue che fanno nobile un uomo, ma le sue gesta e i pensieri che procedono dal suo animo. Adesso va, hai la mia benedizione e che il Signore t'accompagni”.
Dopo aver scambiato un ultimo intenso sguardo con il padre, in sella a un magnifico cavallo da guerra, con due sacche che nascondevano le armi di Aldebrando e i viveri per il viaggio, Filippo partì per Ambrise.
Il fatto di dover cavalcare un cavallo da guerra preoccupava alquanto il giovane che aveva sempre cavalcato solo i muli del convento, quindi si avviò con prudenza al passo. Il destriero comunque era docile e ben addestrato e ben presto Filippo acquistò confidenza con l’animale.
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Dopo alcune ore, raggiunse la sommità del primo monte che sovrastava Castrum S. Petri. La vista era stupenda, la valle del Tolerus[2] si estendeva davanti agli occhi del ragazzo in tutta la sua lunghezza. Ogni castello, ogni insediamento nella valle erano visibili sino alle pendici dei Preappennini. All'orizzonte, il bianco delle cime innevate contrastava con l'azzurro profondo del cielo di primavera. Filippo puntò verso sud, cavalcando la cresta delle montagne erose dal tempo, tra boschi di querce e castagni.
Dopo un poco il ragazzo che sentiva i morsi della fame, si accampò e mangiò di gusto le focacce e la frutta che Fra Silvestro gli aveva preparato in una sacca di tela. Povero Fra Silvestro, aveva visto sfumare i suoi progetti riguardanti Filippo ma, grazie all'affetto che nutriva per lui, aveva accettato la situazione con serenità, ritenendolo un segno della Divina Provvidenza.
Pippetto, perché in quei momenti ritornava a essere Pippetto l'indolente, dimenticando la sua missione, si sdraiò nell'erba come amava fare di solito. Al caldo del sole iniziò a fantasticare e stanco si addormentò.
Non molto tempo dopo, un forte tuono e una serie di intense raffiche di vento lo riportarono in fretta alla realtà, stava arrivando repentinamente da sud un forte temporale.
Il cielo si era già fatto scuro e subito dopo, con le prime e rade gocce colme d'acqua, giunse la tempesta. La pioggia violenta spinta dal vento sferzava il volto di Filippo, che iniziò a sentire freddo. Preoccupato in cerca di un riparo, sentì odore di fumo e tentò di individuare da dove provenisse. Con un po' di fortuna, seguendo quella flebile traccia, vide una grotta. Ringraziando di cuore il Cielo, impastoiato il cavallo a un albero lì accanto, vi entrò.
Nel buio dell'antro vide un fuoco acceso e senza indugiare, tremante e infreddolito vi si avvicinò per riscaldarsi. La grotta era ampia e alta a sufficienza da raccogliere tutto il fumo che sfogava all'esterno senza infastidire.
“Chi sei? - disse una voce roca e tremante dal fondo della grotta - Stai lontano da me. Sono un essere immondo, punito per i suoi peccati”.
Filippo trasalì dallo spavento, poi aguzzando la vista, una volta abituato al buio della grotta, intravide una sagoma scura, avvolta dalla testa ai piedi da luridi stracci, che giaceva dall'altra parte del fuoco in una specie di giaciglio fatto di foglie secche.
“Sono Filippo, vengo da Castrum S. Petri e sto andando al castello di Ambrise. Fuori c'è un tremendo temporale, sono tutto bagnato e ho molto freddo. - Tacque un attimo continuando a sfregare le mani sul fuoco - Tu invece chi sei?”.
“Ero un mercante una volta, un ricco mercante, ma il mio ultimo viaggio a Firenze per comprare tele e broccati mi è stato fatale. Dio mi ha punito. Ubriaco, dopo aver concluso un ricco affare, mi concessi a una meretrice, ed eccomi qua. Dio abbia pietà di me. Ma ormai, chi sono stato più non importa, quel che conta è che sono un povero lebbroso. Vivo della carità dei frati del monastero di S. Angelo di Meruleta. Ma la carestia ha colpito anche loro, sono tre giorni che non mangio nulla e non ho più la forza di alzarmi. Ormai attendo solo che la morte venga a liberarmi dalle mie piaghe per sempre. Approfitta del poco fuoco che rimane e asciugati; ma stai lontano da me, poi vattene e lasciami morire in pace”.
Filippo rimase colpito dal tono triste e nello stesso tempo dignitoso dell'uomo:
“Con tutto il rispetto per il tuo dolore, mio padre mi ha insegnato ad aiutare per quello che posso chiunque ha bisogno. Non avere paura per me, ho visto curare gente che aveva la tua stessa malattia dai frati vicino casa, so cosa va fatto. Non posso abbandonarti senza fare nulla”.
Uscì di nuovo sotto la pioggia e scaricò la sacca dei viveri dalla sella, scaldò subito una focaccia e la porse al lebbroso che la mangiò avidamente. Mise altra legna sul fuoco, prese dell'acqua dal suo otre, la versò in una ciotola che era in terra e la lasciò a scaldare. Nel frattempo strappò una striscia di tela dalla parte alta dei suoi gambali e se l'avvolse sulla bocca e il naso. Con acqua tiepida lavò con cura le piaghe del lebbroso, che rinfrancato dal cibo e dalla carità mostrata dal giovane aveva già dimenticato il suo desiderio di morte.
Il temporale passò e Filippo lasciò metà delle sue provviste al poveruomo.
“Al mio ritorno passerò a trovarti. Cercherò di portarti altro cibo e indumenti. Arrivederci amico e grazie per l'ospitalità”.
“Arrivederci a te. Sei un bravo giovane, non dimenticherò mai la tua gentilezza. Che il Signore te ne renda merito. Fai buon viaggio”.
Filippo continuò il viaggio con il cuore leggero, donare aiuto disinteressatamente lo faceva sentire in pace con se stesso e con il mondo intero, e questo lo rendeva felice.
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Il segreto di Ambrise
היסטורי בדיוניTra gli intrighi generati dal braccio di ferro tra papato e impero germanico (XI sec.), nello scenario del Lazio meridionale, durante la distruzione della fortezza del villaggio di Castrum da parte delle truppe dell’Imperatore Federico Barbarossa, u...