DUBLINO

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Quattro mesi dopo.

Grafton Street era diventata la mia nuova strada preferita. Appena ci avevo messo piede, sapevo che avrei passato ore e ore nei negozi disseminati lungo la via.

Avevo già visitato mezza Dublino dal giorno in cui ero arrivata, ma nessun luogo mi aveva colpito come quello. Il viavai di persone, gli artisti di strada, i banchetti che vendevano fiori... era tutto così magico. Come il resto di quella città, d'altronde. Cercai di non pensare al giorno della partenza, in cui l'avrei dovuta lasciare.

Il viaggio a Dublino era stato il mio regalo di compleanno da parte dei miei. Non avrei potuto essere più felice. Se c'era una cosa che amavo, quella era sicuramente viaggiare. Mio padre era stato invitato a un convegno nella capitale dell'Irlanda, e così mi aveva chiesto di andare con lui. Mi sentivo così felice, completa. Come se tutto il mondo mi stesse sorridendo. Fin dal primo giorno mi ero sentita in quel modo, quando ero scappata dall'hotel mentre mio padre era al convegno (non voleva che uscissi da sola, senza di lui). Avevo fatto un giro nelle stradine attorno all'albergo, e non avevo smesso di sorridere come un'idiota nemmeno per un secondo. Quel primo giorno, proprio nella via in cui mi trovavo, si stava svolgendo una maratona, e gli organizzatori mi avevano regalato un aggeggio simile alle maracas per incitare i corridori. Erano tutti così gentili e disponibili. Appena mi guardavo un po'attorno con aria confusa, qualcuno si avvicinava sempre per chiedermi se mi ero persa, offrendosi di darmi indicazioni. Mi era successa la stessa cosa anche in Inghilterra, durante un viaggio studio. Amavo i paesi anglosassoni; ciò di negativo che dice la gente su di loro non è assolutamente vero. Sono di gran lunga più gentili degli italiani. Alzai lo sguardo verso il cielo, e vidi che si era di nuovo annuvolato. In Irlanda il tempo cambia almeno cinque volte al giorno. Gli irlandesi stessi dicono che, durante un giorno solo, si passa attraverso tutte le stagioni. Lo avevo letto su internet prima di partire, e ora potevo confermarlo: al mattino mi alzavo con le nuvole, molte volte si metteva a piovere, poi, verso mezzogiorno, sempre, spuntava un sole caldo che illuminava tutto quanto di una luce che faceva risplendere tutti i colori. Di solito il sole durava fino a sera (non tramontava fino alle 23 circa), e nel frattempo saliva una leggera nebbiolina dal mare, che faceva calare precipitosamente la temperatura. Era un altro mondo, ma io mi sentivo parte di esso. Ero innamorata di tutto ciò che mi circondava. Mi sarei messa a fare piroette per le vie se non mi avessero rinchiusa in un manicomio. Persa nelle mie allegre riflessioni, mi resi conto che sulla mia destra c'era uno dei miliardi di negozi di souvenir di Dublino. Entrai, intenzionata a comprare qualcosa per Giacomo. Quella mattina ero sola: avevo convinto mio padre a fidarsi di me e a lasciarmi fare un giro per i negozi. Nessuno mi avrebbe violentata e uccisa dentro di essi.

Non avevo idea di cosa comprare. C'erano ovunque gadgets della Guinness, la famosa birra irlandese, ma non mi convincevano. C'erano matite, biro, palle di vetro con la neve, portachiavi, guanti da forno, magneti, felpe. Vagando per gli scaffali, mi fermai davanti alle magliette. Erano l'unica cosa carina da poter regalare. Ne presi una verde con la scritta Dublin, e guardai la taglia e il prezzo. Sembrava andare bene. Un po' banale, forse, ma sapevo che gli sarebbe piaciuta. Il verde, poi, era uno dei suoi colori preferiti. Mi misi in fila alla cassa, e mentre aspettavo mi guardai in giro. C'era uno scaffale con dei preservativi. Mi venne da sorridere. Ce n'erano di tutti i tipi, con dei trifogli o la bandiera verde, bianca e arancione. Sentii le mie guance colorarsi di rosso. Da un po' di tempo io e Giacomo eravamo sempre sul punto di compiere il grande passo. C'era sempre qualcosa che mi bloccava, però, anche se non riuscivo a capire cosa. Ormai ci eravamo già rimessi insieme da quattro mesi, e tra noi si era ristabilita quell'affinità che c'era all'inizio. Le cose stavano andando bene tra noi, al di là di ogni mia aspettativa. Forse avevo solo paura. Il giorno in cui stava per succedere, prima che ci lasciassimo, avevo scoperto la famigerata chat sul suo cellulare ed ero scappata da casa sua, ferita e profondamente delusa. Dopo quell'episodio avevo sempre cercato di evitare di arrivare fino a quel punto. Lui mi capiva, almeno credevo, e non aveva mai insistito più di tanto. Da qualche settimana, però, avevo iniziato a pensarci sempre di più, tormentandomi di continuo. Tra poco sarebbe stato il suo compleanno, e mi era passato per la mente che, forse, avrei potuto fargli quel regalo. Sicuramente gli sarebbe piaciuto.

Scossi la testa per cercare di non torturarmi troppo e, dato che era arrivato il mio turno, pagai. Controllai l'orologio: era tardissimo. Mi affrettai nella direzione dell'albergo – distava circa mezz'ora – nella speranza di non arrivare troppo tardi. Era mezzogiorno e dieci, e mio padre mi aveva detto di tornare per le 12.30. Avrei dovuto correre.

Attraversai di corsa St. Stephen's Green, un parco enorme con tanto di lago, sotto la fastidiosa e finissima pioggerellina irlandese (tutti gli irlandesi DOC rinunciavano a ripararsi con l'ombrello, e io decisi di fare lo stesso), ma mentre stavo per oltrepassare il cancello una voce mi chiamò. Mi si gelò il sangue nelle vene. Era mio padre. Al suo fianco, un'auto della polizia e diversi agenti. Mi sentii svenire. Non era possibile.

Mi venne incontro infuriato, bestemmiando e dicendo un'infinità di parolacce. Non l'avevo mai sentito parlare in quel modo, e se non fossi stata in quella situazione non avrei potuto fare a meno di ridacchiare. Urlava dicendomi che aveva provato a chiamarmi migliaia di volte, ma che io non avevo mai risposto; urlava dicendomi che mi aveva cercata per tutta Grafton Street, per tutto il parco, andando vicino a ogni barbone per vedere se uno di loro mi aveva violentata. Inevitabilmente, lacrime colme di tristezza iniziarono a scorrermi sul viso, confondendosi con la pioggia. Mi si spezzava il cuore a sentirlo così. Sprizzava preoccupazione e disperazione da tutti i pori, e io avrei voluto morire per quello che avevo causato. Gli mostrai il cellulare, facendogli vedere che non avevo nessuna notifica. Non riuscivo a capire nemmeno io. Poi, però, mi ricordai che la mia sim, dal momento in cui eravamo atterrati, non si era registrata sulla rete. Non avevo dato troppo peso a ciò, dato che in hotel c'era il wifi, ma come conseguenza non avevo ricevuto tutte le chiamate di mio padre. Lo lasciai sfogare, morendo di vergogna; dopo qualche minuto si calmò, ringraziò gli agenti – che nel frattempo stavano ridendo sotto i baffi – e ce ne andammo. Mi disse che mi aveva chiamata a metà mattina per sapere come stavo e, vedendo per non rispondevo, si era preoccupato. Dopo svariati tentativi, se n'era andato dal convegno per cercarmi, ma senza risultati. Aveva chiamato la polizia, aveva detto loro com'ero fatta e, se non fossi arrivata proprio in quel momento, avrebbero iniziato a cercarmi. Tremai al solo pensiero. Avevo combinato un casino enorme. Anche se le mie scuse contavano ben poco, mi scusai mille volte. Quando tornammo in albergo salii in camera e non mi mossi più di lì fino all'ora di pranzo. Nel frattempo provai a contattare la mia compagnia telefonica, ma nessuno mi rispose. Tentai di di arrangiarmi da sola, cercando nel mio cellulare cose da attivare o disattivare, fino a quando non lessi "roaming". Allora capii tutto. Non avevo attivato lo stramaledetto roaming. Schiacciai sulla spunta e, finalmente, vidi le tacche del campo tornare alla normalità.

Quel pomeriggio mio padre se ne andò prima dal convegno per farmi fare un giro. Prendemmo l'autobus (ci costò un occhio della testa) e ce ne andammo in centro. Mi dispiaceva ancora enormemente per quello che avevo fatto, ma ora lui sembrava solamente sollevato che fosse finito tutto bene. Passeggiammo per O'Connell Street e Temple Bar, il quartiere più famoso di Dublino. Il tutto era avvolto in un tiepido sole dorato e dalla magica atmosfera di Dublino. In quel momento capii che non mi sarebbe mai più uscita dal cuore.

Venerdì 10 giugno, ore 23.47.

Dopo aver recuperato i bagagli, mi avviai con mio padre e un suo collega verso l'uscita dell'aeroporto. Ero stremata. L'aereo era partito in ritardo di un'ora, e a bordo c'era una squadra di calcio ubriaca che ogni tanto iniziava ad urlare, facendomi morire dallo spavento ogni volta. La prima cosa che mi veniva in mente quando sentivo urlare uno di loro, infatti, era che fosse un terrorista che stava per farci saltare in aria.

Quando le porte scorrevoli che portavano all'uscita si aprirono davanti a me, tra le persone che tenevano in mano cartelli con i nomi delle persone che stavano aspettando, notai qualcuno di familiare. Incredula, rimasi di pietra per qualche secondo. Dopodiché, gli corsi incontro e gli saltai in braccio. Giacomo mi aveva fatto una sorpresa, e io ero così felice che alcune lacrime di gioia mi scesero sul viso. Non me l'aspettavo per niente. Gli stampai un bacio sulle labbra, incurante che mio papà potesse vederci. Mi accarezzò i capelli e mi sussurrò:

- Mi sei mancata.

Era così bello udire la sua voce che sentii i brividi lungo la spina dorsale. Gli diedi un altro bacio, felice, e lo guardai negli occhi. Avevo preso la mia decisione.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 05, 2016 ⏰

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