ARRIVEDERCI

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Dopo aver passato una notte insonne, il giorno seguente decisi di andare a parlare con Valentino. Mi aveva messo il cuore in subbuglio e io, non sapevo perché, sentivo la necessità di vederlo. Dovevo capire cosa stesse succedendo. Non sapevo più come mi sentivo: quel tenero, piccolo bacio sulla guancia aveva messo in discussione tutte le mie certezze, tutto ciò di cui avevo creduto di essere sicura negli ultimi mesi.

Il mio cuore era diventato come un macigno che mi gravava sul petto, e nella mia testa continuava a rimbombare ciò che mi aveva detto: addio.

Perché addio? Che significato aveva? Era incredibile che una parola, una stupida sequenza di lettere, potesse sconvolgermi tanto.

Avevo passato l'intera notte a girarmi e rigirarmi nel letto, non riuscendo a smettere di pensare a ogni dettaglio del suo viso, alla sua voce, e immagini dei suoi occhi, nei quali si rifletteva il sole, dei suoi capelli, delle sue mani e di ogni suo particolare continuavano ad avvicendarsi nella mia mente. Quando, finalmente, riuscii ad addormentarmi, fui svegliata di soprassalto dalla sveglia appena un'ora dopo. Il cuore mi batteva forte, come se avessi appena corso per kilometri, e sudavo freddo.

Ripensando a tutto ciò, nel pomeriggio mi diressi a passo deciso verso casa sua, con il cuore in gola. Sentivo qualcosa di strano, come un brutto presentimento. Quando arrivai davanti al cancello, fissai per due minuti il campanello senza avere la forza di alzare il dito. Attorno al pulsante rotondo c'era un po' di ghiaccio, mentre sul lato destro c'era una ragnatela cristallizzata. Grazie al cielo, non c'era nessuna traccia del ragno.

Feci un profondo respiro e mi decisi a premere il tasto del citofono. Aspettai che mi aprisse qualcuno, preferibilmente Valentino, mentre sentivo l'ansia crescere sempre di più.

Sentii un rumore, e capii che qualcuno stava aprendo la porta. Un ciuffo biondo fece capolino dallo stipite. Quando Giacomo mi vide, fece un mezzo sorriso e mi aprì. Io gli rivolsi un'espressione scocciata, storcendo le labbra. Non era per lui che ero venuta.

- Non sembri molto felice di vedermi. - Cominciò lui.

- No, infatti.

Un lampo di delusione passò per i suoi occhi, ma si ricompose subito, drizzando le spalle e facendo finta di niente.

- E perché saresti venuta, allora?

- A dire il vero, volevo vedere tuo fratello.

Un po' sconcertato, fece un passo indietro. Mi guardò con le sopracciglia aggrottate.

- E il motivo sarebbe...?

- Ogni cosa che mi riguarda non è più affar tuo. Dimmi dov'è e basta.

Si guardò i piedi, rimanendo in silenzio. Poi, dopo un po', alzò di nuovo lo sguardo verso di me e mi guardò dritto negli occhi, con un'espressione risoluta.

- È partito.

- Come, partito? - il mio cuore aveva preso a battere più forte, ma dovevo cercare di non agitarmi.

- È partito. Punto.

- Ma partito per dove? A fare la spesa, a fare un giro in bicicletta? Dov'è?

- Lontano.

- È andato in gita? - un barlume di speranza si accese dentro di me.

- È andato in America, Angelica.

Il mio cervello impiegò qualche secondo ad elaborare quell'informazione. Subito, pensai si trattasse di uno scherzo.

- Non prendermi per il culo, dimmi dove si trova e finiamola qui.

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