UN INCONTRO SPECIALE

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Il treno era partito da una decina di minuti quando passò su un ponte. Guardai in basso e vidi l'acqua illuminata dal sole, e all'orizzonte solo sterminata campagna. Pensai che, quando quella sera sarei tornata a casa passando sempre per di lì, sarebbe stato bellissimo vedere il tramonto all'orizzonte. Proprio per quegli spettacoli che mi offrivano l'acqua e il cielo le tratte sui ponti erano sempre state le mie preferite; mi piaceva anche guardare giù per provare la sensazione di vertigini e sentirmi sospesa nel vuoto. Quando lo oltrepassai smisi di guardare fuori e tirai fuori un libro che stavo leggendo. Non mi aveva ancora preso più di tanto, ma non avevo quasi mai tempo di leggerlo e dovevo riportarlo in biblioteca al più presto. Dopo qualche pagina, però, mi accorsi che non sapevo nemmeno cosa stessi leggendo e che non riuscivo a concentrarmi per niente; decisi quindi che era troppo noioso e lo riposi nella mia borsa. Spostai la mia attenzione sulle punte azzurre dei miei capelli, e mi si gonfiò il cuore per la milionesima volta. Avere i capelli azzurri era infatti il mio sogno da un po' di tempo, e finalmente ero riuscita a realizzarlo. Non me li ero colorati fino alle radici ma solo sulle lunghezze, nonostante fossi terrorizzata dai danni che avrebbe provocato l'acqua ossigenata sui miei già rovinatissimi capelli. Ma in fondo si vive una volta sola, no? Lasciai perdere le mie doppie punte e spostai il mio sguardo sul panorama. In lontananza si vedevano delle fabbriche ma per il resto c'erano solo campi di mais e grano. Uno in particolare attirò la mia attenzione: era pieno di fiori gialli e riluceva sotto la luce del sole. Stavo sfoderando la mia macchina fotografica per cercare di immortalarlo quando sentii un tonfo e uno stridere di freni. Pensai subito al peggio, ad esempio che stavamo deragliando (non ero mai stata molto ottimista), ma il treno sembrò tornare alla normalità e proseguì senza problemi per qualche metro. Poco dopo, però, un suono sordo ancora più forte invase il mio vagone, e il treno si fermò definitivamente. Per almeno dieci minuti nessuno ci disse niente, ma poi il capostazione ci comunicò con l'altoparlante che il treno aveva un guasto al motore, e che ci sarebbero volute ore perché riuscissero a ripararlo, soprattutto perché eravamo in mezzo alla campagna e non raggiungibili dai tecnici tramite strade asfaltate. Pensai a cosa fare. Sarei dovuta stare seduta per ore senza fare niente, in mezzo al nulla, in un giorno nel quale avrei dovuto visitare una nuova città. Sbuffai e mi appoggiai al finestrino. Guardando in lontananza scorsi delle case, che sembravano appartenere a un piccolo paese sulla collina. Mi alzai in piedi e osservai meglio. Pensieri frenetici mi vorticavano in testa, e senza pensarci due volte scesi dal vagone e iniziai a camminare verso quelle abitazioni. Erano abbastanza lontane e dovevo percorrere a piedi un intero campo pieno di fango che però, per fortuna, era di erba medica e non di mais o grano, altrimenti sarebbe stato impossibile passare tra le piante. La paura che il treno se ne andasse senza di me mi spinse a correre, per raggiungere più in fretta il paese e per poi tornare indietro il prima possibile. Mi stavo pentendo di essermi allontanata e continuavo a girarmi indietro a controllare che non se ne fosse andato, ma non volevo sprecare quella giornata e tutti i soldi che avevo speso per il biglietto. In qualche minuto giunsi all'inizio di Arquata Scrivia, come diceva un cartello. Mi inoltrai nelle vie e nei viali alberati, facendo alcune foto e guardandomi intorno, divorata dalla curiosità. Era un normale paesino, abbastanza simile al mio. Entrai in un bar, chiesi una bottiglia d'acqua e, grazie ad una cartina appesa alla parete, capii che ero ormai abbastanza vicina alla costa e, quindi, a Genova. La solita sfiga. Proprio lì si era dovuto fermare il treno! In ogni caso, ero ugualmente contenta di aver deciso di scendere e farmi un giro: era un' opportunità per scoprire nuovi posti che non fossero grandi città, bensì luoghi meno "scontati". Stavo camminando da un po' lungo un grande viale pieno di alberi quando mi sembrò di essere seguita. Mi voltai e non vidi nessuno. Proseguii quindi per la mia strada, col naso all' insù, guardando il cielo spensierata. Non riuscivo però a togliermi quella sensazione di essere pedinata, quindi mi voltai di scatto per la seconda volta, abbassai lo sguardo e vidi un gatto. Era un po' malconcio, sembrava un randagio, ma era comunque una meraviglia, nonostante il pelo abbastanza sporco, bianco e arancione. Come tutte le volte che vedevo dei gatti, iniziai a fare versolini e a saltellare, poi mi accovacciai, gli sorrisi e, cercando di sembrare il più amichevole possibile, gli tesi la mano per cercare di accarezzarlo. Lui sembrava diffidente, ma non si allontanò. Quindi staccai un pezzo dal panino che avevo nella borsa e glielo porsi; vidi il suo musino muoversi e gli occhi illuminarsi, e con un balzo mi si avvicinò e si mangiò tutto. Sembrava affamato, così tirai fuori tutto il prosciutto e glielo regalai. Il gattino mangiò con avidità mentre gli accarezzavo dolcemente il dorso, e quando ebbe finito mi guardò con i suoi occhioni dorati. Davanti a quello sguardo implorante gli sbriciolai anche una schiacciatina, e quando ebbe finito lo accarezzai dietro le orecchie e mi alzai per andarmene. Lui però non ne voleva sapere, e cercò di intralciarmi zigzagando tra le mie gambe. Allora lo accarezzai di nuovo, gli presi una zampa e gli chiesi da dove veniva. Dato che non ottenni risposta, mi toccò chiederlo a tutti i passanti che incrociavo.

-Mi scusi, sa se questo gatto appartiene a qualcuno di questa zona?

-No, mi dispiace, non l'ho mai visto.

La maggior parte della gente rispondeva così, ma poi una donna mi disse che no, non apparteneva a nessuno, era un randagio che girovagava sempre da quelle parti, aprendo i sacchetti dei rifiuti nei giardini con gli artigli, creando danni e implorando tutti con gli occhi di dargli cibo. Ringraziai la signora, dopodichè io e il gattino ci guardammo negli occhi con uno sguardo d'intesa. Mi sedetti su una panchina e lo intimai a salire, poi lo presi in braccio e lo coccolai per un po'.

-Quindi sei tutto solo, eh piccolino?

Io avevo già avuto cinque o sei gatti, tutti scomparsi o morti in incidenti. Abitavo infatti davanti a una strada trafficata e, nonostante avessi sempre insistito per tenerli al sicuro in casa, i miei li lasciavano troppo liberi, e un giorno o l'altro succedeva che non li rivedevo più. A un certo punto mia mamma decise che non avremmo mai più avuto un gatto, e quindi era da diversi anni che non ne possedevo uno.
Io, però, avrei voluto averne la casa piena: erano così belli, soffici e adorabili, con il loro musino curioso e le loro mosse ridicole che conoscevo a memoria. Decisi che avrei adottato quel piccolo randagio. Non sapevo ancora come avrei fatto a convincere i miei genitori a tenerlo, ma mi ero già affezionata a lui e non potevo lasciarlo lì, solo, a vagare per la strada. Avrei anche dovuto trovargli un nome.

Tenendolo in braccio tornai sui miei passi e mi avviai verso dove il treno si era fermato, sperando che fosse ancora lì; erano infatti passate due ore, e non avevo idea di come avrei fatto a tornare a casa se fosse ripartito senza di me.

Stavo già uscendo dal paese quando sentii gridare dietro di me. Mi voltai, e vidi un ragazzo che correva nella mia direzione. Doveva essere un po' più alto di me, aveva i capelli castani, una camicia a quadretti che svolazzava al vento, dei jeans grigi e delle Vans a stivaletto nere e bianche. Non capivo cosa mi stesse dicendo e soprattutto perché stesse correndo verso di me, dato che nemmeno mi conosceva.

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