12.

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la piccola brooklyn era da una settimana coricata in quel lettino privo di colori e dall'aria così triste. i genitori, nonostante tutto parevano ancora immersi nel loro mondo, tant'è che sparirono il giorno stesso dell'incidente. forse troppo codardi o solo troppo poco umani per crescere una creatura così candida come brooklyn
harry, il povero ragazzo, stava giorno e notte su una scomoda sedia in plastica a raccontare l'intera giornata alla ragazza in coma.
non dormiva e non mangiava regolarmente da troppo tempo e si vedeva.
i cerchi scuri sotto gli occhi, la pelle più bianca del solito e l'accenno di barba gli davano un'aria distrutta. per non parlare della voce rotta e del cuore a pezzi che si portava a presso da sette giorni oramai.

i medici avevano detto che era difficile sperare in un miglioramento e che quando sarebbe stata ora il corpo della ragazza si sarebbe lasciato andare da solo.

harry però si ostinava a dire che si sarebbe svegliata, che avrebbe aperto i suoi occhioni stupendi e che lo avrebbe amato come lui amava lei, anche se sotto sotto sapeva che non lo avrebbe più fatto.

il suo corpo ormai rifiutava la medicine, non respirava più da solo, ed era sempre più freddo. non era più brooke, e lui lo sapeva. sapeva che presto l'avrebbe dovuta lasciare andare e che non avrebbe avuto un futuro con lei.

sapeva ma non voleva crederci.
vedeva sfuggire il corpo dell'amata dalle sue mani ma lui non mollava. tirava con tutte le sue forze il suo corpo e la speranza di un miglioramento. ma si sa, non puoi costringere un'anima a rimanere se non vuole restare.

11:11 p.m.→h.s.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora