III

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La porta di casa sbatté con un tonfo secco e Alina si svegliò di soprassalto, allarmata dal forte e insolito rumore. Non era ancora l'alba e qualcuno sembrava essere entrato o uscito di lì, per chissà quale motivo. Erano ladri? Erano i suoi fratelli o i suoi genitori? La testa le scoppiava e le domande erano fin troppe per restarsene a letto e far finta di nulla, nel caldo abbraccio delle coperte, scampate a vari attacchi e rivolte scatenatesi dopo la guerra ogni cinque o sei anni. I piedi di Alina vennero a contatto con il freddo pavimento in legno della dacha e lei rabbrividì impercettibilmente, troppo agitata e curiosa per curarsene o per indossare delle scarpe. Era nella sua indole, quell'innata curiosità che la spingeva da bambina a leggere un mucchio di libri, a correre a perdifiato per le strade della città e scoprire ogni volta una viuzza nuova.
Dopo alcuni istanti, tuttavia, i brividi divennero più forti, non per il freddo, bensì perché Alina si era resa conto che in casa non era rimasto nessuno eccetto lei. Con le gambe tremanti si avviò verso la porta principale, pensando che fosse troppo presto perfino per i genitori che avrebbero dovuto affrontare un lungo viaggio fino al centro della città di Dmitrov. Spalancò la porta e assisté ad una scena macabra che le spezzò il cuore: qualche metro più avanti, la madre, il padre e tutti i fratelli stavano nascondendo rotoli di denaro nelle pesanti giacche che indossavano, dando le spalle alla casa e a lei, ferma sull'uscio della porta. Poco distanti vi erano due uomini alti, dai tratti duri e dalle mani callose, probabilmente abituati ai lavori di forza, e anche piuttosto ricchi, data la presenza di un automobile nera e costosa che di certo non apparteneva alla sua umile famiglia. Un orribile pensiero le balenò in mente e corse subito in casa per prendere qualche abito pesante e un po' di cibo, ma trovo solo una vecchia stola e una crosta di pane quasi muffita. Non infilò nemmeno le scarpe e si fiondò scalza nella neve per poter scappare da quegli uomini. Arrancò e cade nella nel manto bianco più e più volte, i piedi bluastri a causa del freddo e gli abiti inzuppati di neve fresca. Gli uomini, poco lontani da lei, non impiegarono molto ad accorgersi della fuga della ragazza e subito si lanciarono all'inseguimento, mentre Alina piangeva lacrime salate desiderando morire di fame e di freddo piuttosto che essere la moglie - o peggio, la schiava - di uno di quei due bruti. Tuttavia sapeva di avere poco vantaggio e poche speranze di riuscire a fuggire - o a morire - prima che i due la afferrassero. Si chiese perché i genitori avessero deciso per lei quel destino infame, quando avrebbe voluto aiutarli e lavorare in città anche per pochi spiccioli. Le lacrime continuavano a cadere mentre arrancava nella neve, cristallizzandosi sulle sue gote pallide, esangui. Gli uomini la raggiunsero qualche istante dopo, sollevandola di peso e bloccandole gli arti con forza inaudita.
«Mamochka strillò lei disperata, scalciando e agitandosi invano in quella morsa infernale.
Piangeva e si dimenava, gridando il nome della madre, del padre, dei fratelli. Nessuno venne a salvarla, nessuno mosse un muscolo per lei o la degnò di uno sguardo. Era come trasparente, un fantasma davanti alle persone che più aveva creduto di amare durante il corso di tutta la sua vita.
«Come avete potuto?» gridò mentre loro riprendevano il cammino, prima di essere scaraventata in macchina, legata come un salame.
«Smetti di piangere, lurida cagna. Tra due ore sarai la puttana più felice del mondo.» sputò uno dei due uomini, mentre l'altro metteva in moto quel raro gioiello scampato alle bombe e ai proiettili.
Felice?
Si chiese lei. Per quale motivo avrebbe dovuto ritenersi felice?
Le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso è i conati di vomito le attanagliavano lo stomaco minacciando di cacciarne fuori il misero contenuto da un momento all'altro. Avrebbe potuto scavare nella neve sotterrarsi per arrivare più in fretta all'ipotermia, avrebbe potuto dare fuoco alla dacha in legno e ardere viva tra le fiamme. Anche la morte più atroce sarebbe stata meglio della vita da schiava che l'attendeva al termine di quel viaggio. Dopo poco rinunciò a gridare, a chiedere aiuto, a dimenarsi. In quel momento desiderava solo che la morte la cogliesse e la portasse con sé in un posto migliore. Il muco si era incrostato sulle labbra assieme a piccole gocce salate che ancora scorrevano dagli occhi chiari e magnetici che aveva. Gli uomini non avevano più parlato dopo averla minacciata di violente percosse se avesse fiatato, e così neanche lei aveva più detto nulla, troppo spaventata per reagire. Aveva visto scivolare dal finestrino la città di Dmitrov, che da sempre aveva desiderato vedere dopo il conflitto. I tetti delle case erano pressapoco l'unica cosa che riuscisse a scorgere, imbavagliata com'era in quella posizione innaturale, ma almeno sembravano appartenere a case più o meno stabili, in cui la gente non sembrava vivere tanto male. Immaginò se stessa in una di quelle case assieme ad un uomo dalle fattezze fantastiche, un uomo che non aveva mai visto, ma che nella sua testa era un marito buono e amorevole che un giorno le avrebbe dato tanti figli e una vita degna, che non l'avrebbe mai costretta a concedersi a lui se indisposta e avrebbe fatto tutto il necessario per renderla felice. Con uno sguardo malinconico alla strada dietro di sé si disse che era inutile continuare a nutrire false speranze per una vita migliore, lontana dalla schiavitù e dai soprusi, nonostante non conoscesse ancora l'identità del suo padrone.
Padrone.
Mai e poi mai nella sua vita avrebbe pensato di dubitare della fiducia o dell'amore dei propri genitori, ma in quel momento la sua vita stava cambiando radicalmente e tutto per colpa loro. Si chiese se mai in futuro avrebbe avuto un figlio dal suo padrone, senza riuscire a darsi una risposta: era interessato solo alle donne o anche alle figlie che queste gli avrebbero dato? Il solo pensiero la fece rabbrividire e pensò che avrebbe preferito cadere accidentalmente dalla finestra appena arrivata, piuttosto che farsi toccare da quel mostro. Si chiese intanto, con una punta di autoironia e sarcasmo, se essere felice di essere costata cara a quel bastardo o se esserlo perché finalmente lontana dalla famiglia.
"Un giorno sarai libera, Alina."
Le diceva spesso la madre, ma non credeva che la libertà fosse il serraglio in cui la stava mandando per un po' di denaro insanguinato.
Ma che importanza poteva avere, ormai?
«Scendi, shlyukha, si arriva a piedi.» disse il più grosso dei due uomini lasciandole legate le mani dietro la schiena.
Alina non si era accorta di essere già arrivata a destinazione, persa com'era nei suoi pensieri. Si maledisse per non aver indossato le scarpe quella mattina: di lì a poco i suoi piedi si sarebbero ridotti a due cubi di ghiaccio dal colore indefinito, tendente al bluastro. Forse glieli avrebbero amputati, ma di certo non sarebbe morta per un po' di freddo ai piedi e in ogni caso non l'avrebbero lasciata crepare nella neve dopo tutte quelle ore in automobile, dopo tutto il denaro speso e la fatica per portare quella sgualdrina fin lì, al cospetto di chissà chi.

Kajira - L'erede delle nevi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora