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Tic tac, tic tac.

Il tempo era scandito con estenuante lentezza da un orologio lavorato, appeso alla parete della camera da letto dello zar. I tre cuori battevano all'unisono e, solo per uno di questi, il motivo era l'irrefrenabile desiderio di continuare. Le due ragazze, invece, ne avrebbero fatto volentieri a meno, se avessero potuto. Alina incolpava se stessa, la sua stupidità, la sua ingenuità e le sua maledette urla; Selene allo stesso modo si incolpava, maledicendo la propria testardaggine, il proprio cuore gentile. Ma la colpa era da attribuire solo ed unicamente alla persona che sedeva sul baldacchino, davanti a loro.

Esisteva davvero qualcuno più sadico e malvagio di lui?

Quel suo temporeggiare stava uccidendo, dilaniando le povere ragazze che intanto tenevano stretto il coltello per il manico, sfiorandosi le dita in alcuni punti. Si guardavano spaventate, non capendo dove quel gioco di pessimo gusto le avrebbe portate, cercando di non incrociare mai lo sguardo del padrone. La tensione era troppa, da far venire la nausea, ma non potevano far altro che aspettare ordini dallo zar, restando ferme, pietrificate.

«Tu, siedi sul pavimento e non muoverti, non fiatare.» disse Aleksandr a Selene, spingendola via con rude brutalità, facendola cadere in terra e provocandole l'ennesimo livido violaceo.

Alina tremò, scossa da un forte brivido che le percorse l'intera lunghezza della schiena, rendendosi conto di essere ora l'unica ad impugnare il coltello. Si chiese cosa ne sarebbe stato di Selene, della ragazza dai ricci scuri che le stava davanti, dolorante, e che non poteva azzardarsi ad aiutare.

«Dammi questo, zuccherino, ti servirà più tardi.» le disse il padrone con disgustosa dolcezza e lei fu costretta ad obbedire, tendendo verso di lui la mano con il pugnale e lasciando che lo prendesse, scagliandolo contro la porta di legno pregiato da cui erano entrate qualche minuto prima.

Poi Aleksandr incrociò le braccia dietro la testa, invitandola a mostrargli le arti del sesso apprese durante quel breve soggiorno a palazzo, ovvero nessuna, ufficialmente. Il maledetto aveva scelto lei per poter uccidere entrambe, senza sapere della breve lezione che l'amica le aveva offerto in quei venti minuti di tempo che aveva concesso loro per prepararsi. Alina era determinata e, nonostante le sue guance si fossero tinte di un forte rosso cremisi a causa della vergogna, voleva a tutti i costi riscattarsi e far vedere a quella faccia tosta, presuntuosa ed arrogante, che non era inesperta quanto credeva.
Le sue intenzioni erano le migliori in assoluto, il suo cuore pompava il sangue sempre più rapidamente a causa dell'adrenalina, la testa le girava come fosse su una giostra, sentiva in sé la grinta e il coraggio di un leone. Il suo respiro era affannato, pesante, come dopo una lunga corsa, ma la giovane schiava non si era mossa, non aveva contratto o disteso neanche uno dei suoi muscoli.
Poi qualcosa accadde e il suo instabile castello di cristallo fatto di sogni e buone intenzioni cadde rovinosamente, andando in frantumi su quel baldacchino in cui ogni altra donna avrebbe voluto rimanere in eterno. Il bastardo le toccava le cosce, ispezionava ogni centimetro della sua pelle davanti agli occhi della seconda schiava, Selene, ancora accucciata sul pavimento della stanza. Quel contatto fisico così intimo e privato aveva fatto sì che le prime lacrime le pizzicassero le palpebre e le velassero le iridi cerulee, costringendola a rivolgere lo sguardo verso l'alto per non imbrattare il viso di mascara colato. Nemmeno il piacevole e delicato trucco che aveva, o l'abito elegante che indossava, erano riusciti a farla stare meglio: era stata strappata brutalmente da una realtà a cui era fortemente legata e ancora non aveva trovato la forza per recidere il cordone e abbandonarsi alla schiavitù, alla sorte cui era stata destinata.
Aleksandr iniziò lentamente a risalire con le mani sulle sue cosce, con quelle dita viscide e maledette, impregnate del sangue di chissà quanti innocenti, chissà quante schiave, prima di lei. Sembrava quasi gentile, quasi premuroso nei suoi confronti, ma il colpo di grazia non tardò ad arrivare: due dita intercettarono il punto più doloroso, sia fisicamente che mentalmente, conficcandosi con rabbia, disprezzo e disgusto nella kef bruciacchiata che sembrava sul punto di esplodere. Alina spalancò le labbra, inarcando la schiena e lasciando uscire un grido straziato, di infinito dolore. Le lacrime presero a scorrerle sul viso e il trucco le colò fin sul collo, raggiungendo l'abito abilmente ricamato che portava in quel momento.

Kajira - L'erede delle nevi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora