XV

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Selene era in una stanza buia, ma non sapeva dire se per la notte o per le finestre sprangate. In ogni caso, saperlo non l'avrebbe portata a nulla, anzi, avrebbe unicamente accresciuto in lei il senso di smarrimento e paura che non aveva mai smesso di provare da quando era arrivata a palazzo. Aveva osato sfidare lo zar, il suo padrone, alzando lo sguardo e puntando gli occhi nei suoi, convinta di trovare la morte sulla lama del coltello impugnato da Alina.

E, forse, sarebbe stato meglio.

Al pensiero di Alina, tuttavia, il suo labbro inferiore ebbe un fremito impercettibile, segno del profondo attaccamento sviluppato in poche ore con la sua nuova amica, l'unica che avesse mai avuto. Il padrone l'aveva comprata nella piccola cittadina in cui viveva dopo una spedizione ai confini con la Grecia, la terra lontana da cui proveniva, ma di cui, purtroppo, non le restava quasi più nulla. La sera, spesso, restava distesa sul proprio giaciglio con gli occhi chiusi, dopo aver soddisfatto i bisogni e le necessità dello zar e cercava di concentrarsi sul volto della madre, del padre, per ricordare quel dettaglio o particolare sfuggito o perso nel tempo. Tuttavia, più cercava di ricordare i loro volti e più le sembrava di tralasciare qualcosa.

La prima volta che aveva visto quello che sarebbe ben presto diventato il suo padrone lo aveva considerato perfino affascinante, raffinato, dalle buone maniere, nonostante fosse chiaro che provenisse da un paese lontano. La prima volta che lo aveva visto, Selene aveva creduto che fosse lì per prenderla in moglie, per vivere con lei una vita felice, lontano dalla miseria e dalla povertà in cui il suo villaggio si trovava.
Aveva solo undici anni quando lo zar mise nelle mani dei suoi genitori tanto denaro quanto non se n'era mai visto in città o nella capitale stessa, durante quegli anni. Lei si sentì bene, felice, in pace con se stessa per essere riuscita a risollevare le sorti della propria famiglia attraverso il presunto matrimonio con un uomo dall'aspetto gentile e generoso. Inizialmente, ricordò, Aleksandr le aveva detto di non preoccuparsi, di stare tranquilla e imbarcarsi con lui e i suoi soldati alla volta di Istanbul, prima di salire su un vascelletto intimo per raggiungere Odessa e, solo successivamente, la grande capitale. 
Lei aveva faticato a capire i passaggi, non parlando la lingua dello zar, ma il suo sorriso rassicurante le era parso come il più sincero e delicato del mondo. Era quasi impossibile, per lei, ripensare a quel volto amico, spuntato improvvisamente poco oltre l'orizzonte, da una terra di cui lei non conosceva usi e costumi.

Quel sorriso sincero e delicato si era ben presto trasformato in un ghigno famelico, desideroso di posarsi sulla candida purezza della giovane donna. E nessuno le aveva mai spiegato cosa facessero marito e moglie nel talamo nuziale, nessuno le aveva mai detto che avrebbe fatto male, che lei avrebbe sofferto, pianto, gridato, desiderato la morte.

Ma nessuno, tuttavia, le aveva mai detto che avrebbe sposato quell'uomo.

I suoi occhi si aprirono di scatto quando, improvvisamente, sentì dei lievi colpi contro la parete di fianco. Forse era la porta, forse la finestra, chi avrebbe potuto dirlo in un ambiente così scuro, privo di luce e di punti di riferimento? I suoi sensi presero nuovamente vita in modo brusco e crudele, lasciandola senza fiato per alcuni interminabili istanti, mandando al suo cervello centinaia di forti impulsi, tutti contemporaneamente. Gli occhi presero a farle male per lo spazio chiuso, buio, le orecchie le fischiarono per la quasi totale assenza di suoni provenienti da punti limitrofi del castello (ammesso che si trovasse ancora in quel luogo), le narici piccole e sottili s'impregnarono del cattivo odore di muffa e stantio che la circondava e si convinse di essere nelle segrete, abbandonata a se stessa, ma ancora in città; le papille gustative inviarono al suo cervello il senso di sete che la pervadeva da ore, nonostante se ne stesse accorgendo in quel momento per la prima volta. E, infine, il dolore lancinante che provò, non appena cercò di alzarsi, prevalse su tutto. Attorno a lei c'era tutto un mondo, ma lei era rinchiusa nel proprio, personale microcosmo fatto di dolore, agonia: la ferita al bassoventre pulsava, bruciava da morire e avrebbe voluto strapparsi via le viscere con le proprie mani, pur di non restare un secondo di più in quel bagno di dolore che la tormentava.
Le urla che seguirono quel brevissimo istante furono tali da farle credere per un attimo di aver perso per sempre la propria voce, soave come quella di un usignolo anche in momenti del genere. Non aveva neanche la forza per portare le mani al viso e asciugare le lacrime che le colavano fin sulla pelle nuda del collo. Non aveva la forza per chiedere se e quando sarebbe finito, né per ammettere a se stessa che lo zar aveva fatto ben più che ucciderla, relegandola in quell'angolo dimenticato da Dio, con una ferita infetta e sanguinolenta proprio tra le gambe agili e snelle, affusolate e dal colore ambrato. 

Le sue urla insensate si trasformarono ben presto in parole, dal significato vago, imprecisato. Erano parole nella sua lingua madre, la lingua che aveva creduto di aver dimenticato fino a quel terribile momento. Le frasi si accavallavano per uscire fuori, sputate con la stessa forza e veemenza del veleno dalle zanne affilate del serpente. Il padrone l'aveva trasformata nella creatura più miserabile che possedesse, giorno dopo giorno, amplesso dopo amplesso e la cosa che più la spaventava, in quel momento, era non poter più soddisfare le esigenze dello zar, di essere destinata a svanire nel nulla in poco tempo.
Se prima poteva sperare di far leva sulle sue abilità da seduttrice e incantatrice, adesso si ritrovava in quella cella fredda da sola, privata dello strumento che aveva più attirato il suo padrone dalla prima volta che i loro sguardi si erano incrociati.

Pensò a quel giorno, al preciso istante in cui lo aveva visto, credendo fosse lì per salvarla e portarla via dalla realtà infelice in cui viveva. Pensò a quell'unica volta che aveva osato alzare lo sguardo su di lui, quando ancora era una ragazzina ingenua, che credeva di aver salvato la propria famiglia. E pensò anche all'ultima volta che il padrone l'aveva presa con la forza, facendole scorrere sulle guance le stesse lacrime che ora versava, lasciandole sulla pelle segni indelebili e nell'anima un dolore incommensurabile. 

Pensò ad Alina, la kajira che a tutti i costi voleva salvare, per cui si era sacrificata e per cui versava quelle piccole gocce di rugiada. Pensò ad Alina e, prima di essere nuovamente sedata, gridò il suo nome con quanto fiato avesse nei polmoni, temendo di non rivederla mai più.

Kajira - L'erede delle nevi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora