IV

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La notte era trascorsa in tutta fretta e già un pallido sole si intravedeva all'orizzonte. Tra un mare di nuvole plumbee ed un milione di pensieri, Varg cavalcava sul suo cavallo ormai stremato, sapendo che presto avrebbe dovuto farlo riposare, o in alternativa abbatterlo. La bestia era tanto stanca, ma non demordeva, anzi continuava a correre macinando chilometri conscia del pericolo che avevano da poche ore scampato. Varg era attento ad ogni più piccolo particolare, ossessionato dall'idea di un'imboscata, guardandosi indietro una volta ogni centocinquanta passi esatti. Poco distante da lui vi era un secondo cavallo, altrettanto stanco e provato dal lungo viaggio, su cui erano rannicchiate due sagome esili e visibilmente spaventate. Una era naturalmente quella di Lene, la donna della taverna, la Mater delle Kajirae, colei da cui Varg pretendeva spiegazioni che lei non conosceva, o meglio che diceva di non conoscere. L'altra sagoma apparteneva ad una giovane donna, poco più che una ragazzina. Il suo nome era Sofya e non aveva fatto altro che tremare per tutto il viaggio, senza aprire bocca neanche una volta. Lene gli aveva spiegato brevemente che quella era la ragazza che gli sarebbe spettata una volta tornato a Bergen. Poiché era stata destinata ad un nuovo padrone, Lene aveva il compito di istruirla sul da farsi e su come comportarsi durante la notte, dal momento che la kajira non aveva mai avuto occasione di intrattenersi con un uomo e non era esperta come le sue compagne. Varg le aveva interrotte nel pieno della notte, trovandole ancora sveglie, e Lene non se l'era sentita di abbandonarla lì in quella squallida taverna, dopotutto era a Varg che apparteneva.
Scendendo da cavallo si accorse di non provare nulla per quella schiava: non sentiva il bisogno di averla per sé, di possederla o di farne qualunque altra cosa. Era ancora scosso da quel dannato sogno e avrebbe preferito tagliarsi l'uccello con le proprie mani piuttosto che violentano una ragazza vergine. Non era certo un gentiluomo con le signore, ma checché ne pensasse la gente, anche lui aveva un briciolo di moralità.
I cavalli si abbeverano ad un piccolo ruscelletto tra le rocce e lui ne approfittò per sgranchirsi la schiena e raggiungere le due donne.
«Di' alla tua kajira che può andarsene in qualunque momento, non la voglio.» sbottò non appena fu abbastanza vicino, rivolto a Lene.
La Mater gli scoccò un'occhiata allibita e incredula, mentre Sofya chinava il capo e iniziava ad inginocchiarsi sul terreno freddo. Varg le si avvicinò e la tirò su di colpo, afferrandole un braccio. Mai nessuno, nella storia, si era mai permesso di rifiutare una schiava, o di rimandarla indietro.
«Non sei la mia schiava, lo capisci?» tuonò lui, stanco e provato dal viaggio.
Lene gli posò una mano sulla spalla guardandolo con aria severa finché lui non allentò la presa sulla ragazza. Varg allora alzo le mani e indietreggiò di qualche passo, come a voler dire di non avere avuto cattive intenzioni.
«Vuoi spiegarmi dove ci stai portando?» chiese Lene alleggerendo un poco il carico del suo cavallo.
«A Bjordal, dal signor Hans Sjöberg della tua dannata lettera. Chi hai mandato piuttosto a seguirmi per Bergen?» chiese lui irritato, ricordando lo spiacevole incontro con l'uomo misterioso.
Lene si voltò di scatto verso di lui, come offesa dalle parole appena pronunciate e serrò i pugni, avanzando nella sua direzione.
«Sentiamo, chi avresti sorpreso a pedinarti? Di certo non sono stata io a mandarlo, cosa ne avrei ricavato?» strillò lei indispettita e Varg chiuse la conversazione con un cenno della mano, intimandole poi di sbrigarsi o non sarebbero arrivati a Bjordal prima di cena, com'era nei suoi piani.
Le due donne obbedirono senza proferire parola e dopo aver mangiato una mollica di pane si rimisero in viaggio, ognuno con i propri pensieri, le proprie angosce e le proprie paure. Varg aveva voluto subito conoscere le risposte di qualcosa di più grande di lui e aveva trascinato con sé Lene, che a sua volta si era portata dietro quel fardello incompetente di Sofya.
In realtà Varg non sapeva spiegarsi per quale motivo avesse deciso di bussare nuovamente alla porta di Lene; dopo tutto quegli svedesi potevano essere lì per chiunque o volere qualunque cosa dal re. Eppure Varg era certo che quella fosse stata la cosa migliore da fare: almeno lì con lui, su quei cavalli quasi morti per lo sforzo immane a cui erano stati sottoposti, poteva considerarsi al sicuro.
Varg sorrise amaramente: negli ultimi anni non c'era stato un solo momento in cui fosse stato davvero al sicuro o in cui si fosse sentito a casa. I fantasmi del suo passato continuavano ogni notte a perseguitarlo, costringendolo ad una vita fin troppo movimentata e alla totale assenza di una qualsiasi relazione interpersonale. Nessuno conosceva il suo segreto eccetto i suoi carnefici e il corpo di suo padre sepolto sotto tre metri di terra e ghiaccio. Qualche volta smetteva di pensarci, occupato dalle consegne non troppo legali che si ritrova a fare in giro per la Norvegia, rischiando ogni volta la sua schifosa pelle, ma poi i ricordi riaffioravano inevitabilmente.
Millecinquecento passi.
Varg si volto indietro per la decima volta da quando erano ripartiti e annusò l'aria, come fosse un lupo¹ affamato di vendetta. Ricordava vagamente di non essere sempre stato chiamato in quel modo, sapeva per qualche ragione che quello non era il nome scelto per lui dalla madre, ma che importanza poteva avere ormai? Quello pseudonimo scelto dal padre anni prima sembrava calzargli a pennello: faceva branco per cacciare, poi tornava a starsene da solo non appena finito di mangiare. Certo era che questa cosa non gli recava alcun disturbo apparente, non si mostrava infastidito né tantomeno turbato da ciò e non intendeva cambiare il proprio stile di vita a causa di stupide banali norme sociali.
«Avete sentito?» chiese d'un tratto alle due donne, tirando le redini del proprio cavallo e tendendo le orecchie al minimo rumore.
In quel momento erano esattamente all'ingresso di un piccolo ma pericoloso bosco che avrebbe risparmiato loro una faticosa giornata di viaggio. Dalle espressioni delle due donne che lo accompagnavano era facile intuire cosa ne pensassero di quella decisione: azzardata e fuori discussione.
Ma avevano forse altra scelta?
Si strinsero e rimasero immobili, con il cuore in gola e il battito accelerato. Varg fece loro segno di non fiatare, poi indicò la direzione in cui avrebbero proceduto. Magari, in un'altra vita, sarebbe stato un infallibile condottiero. Si addentrarono dunque nel bosco attraverso una via secondaria, la paura di essere uccisi era più forte di quella di perdersi. Camminavano adagio, guardandosi attorno e tentando di tenere sempre d'occhio la strada principale, spesso attraversata da criminali, contrabbandieri e kajirae in fuga dai loro padroni.
Sofya ancora tremava, coperta solo da un misero scialle e Lene non avrebbe saputo dire se fosse più per la paura o per il freddo. Si rendeva conto di aver trascinato una giovane ragazza innocente in tutto quel pasticcio, ma non credeva che le altre sue kajirae se la stessero passando tanto meglio nella periferia di Bergen, ora lontana chilometri. Il paesaggio tutto intorno si faceva sempre più tetro, quasi a voler scoraggiare i poveri malcapitati a proseguire per quel sentiero. Erano circa a metà strada, tuttavia, quando furono costretti a fermarsi per svariati minuti a causa di una voce minacciosa poco lontana da loro. Varg non aveva intenzione di uscire allo scoperto e tentare di combattere per accelerare i tempi: sarebbe potuto essere solo contro cinque o dieci uomini armati fino ai denti, non poteva rischiare la vita. Fece segno alle due donne di non fare alcun rumore, sentendo i passi avvicinarsi, e di tendere le orecchie per captare ogni informazione possibile: potevano essere nel bel mezzo di una faida tra bande, potevano essere amici, nemici, sapere qualcosa sull'attacco degli svedesi. Era strano, in effetti, che nessuno ne avesse parlato fino a quel momento, considerato che per arrivare a Bergen avevano dovuto attraversare tutta la Norvegia – e non era certo facile passare inosservati con più di duemila cavalli.
«Mater...» una flebile voce riecheggiò nel silenzio nel bosco facendo voltare sia Varg che l'anziana Mater verso la giovane Sofya.
Varg trattenne a stento un conato di vomito quando capì cosa fosse successo: sul manto color caramello del cavallo vi era una grossa chiazza scura, di colore rosso, che annunciava l'arrivo del ciclo di luna della ragazza, ora immobile con le lacrime agli occhi, incapace di dire altro. La Mater abbassò lo sguardo e serrò le labbra, era furiosa.
A conti fatti, Sofya non era più una delle sue kajirae e lei non aveva più alcun diritto di punirla per una grave azione commessa, nonostante il desiderio di conficcarle le unghie nella kef bruciacchiata fosse davvero troppo forte.
Varg, invece, si era mosso in avanti facendo strada alle due donne con un unico e fisso pensiero nella propria mente, la voce di Sofya. Era la prima volta che apriva bocca dopo estenuanti ore di viaggio, senza essersi mai lasciata sfuggire neanche un singhiozzo o un gemito durante tutto quel tempo. Varg pensò che forse quel tremore era causato dal dolore dell'espulsione del sangue, almeno così aveva sentito blaterare Agathe una volta. Aveva ucciso decine di uomini, eppure non riusciva a sopportare la vista del sangue che ancora macchiava le cosce della giovane e il pelo del povero cavallo. Il puzzo di sangue intanto attirava insetti, soprattutto mosche, e Sofya non poteva far altro che restare ferma, divorata dalla vergogna e dai sensi di colpa per aver parlato senza essere interpellata dalla Mater, né tantomeno dal suo nuovo padrone.
Sofya non conosceva il suo nome, né la sua età o il suo mestiere, e ciò non avrebbe mai dovuto riguardarla. Un padrone non doveva spiegazioni ad una schiava, né questa poteva permettersi di porre domande o pretendere risposte. Lei era solo un mero oggetto nelle mani di qualcuno che mai avrebbe dovuto sfidare o contraddire, pena la morte.
Aveva appreso dalle sue compagne la storia di Isadóra, la kajira dai capelli rossi di lord Christopher Von der Brelje, ma non aveva alcuna intenzione di fare la sua stessa fine, non aveva intenzione di essere la sposa defunta di un re pazzo, o forse troppo innamorato.
Voleva semplicemente essere Sofya, o la kajira numero ventisette del suo –ormai– precedente padrone, donata all'uomo che ora si rifiutava di guardarla a causa del sangue che ancora le scorreva tra le cosce.

¹ varg = lupo

Ed eccoci, eccoci finalmente al quarto capitolo. Non riesco a non scrivere qualcosa, anche solo poche righe, alla fine di ogni capitolo. Devo dire che sono davvero troppo contenta per i risultati ottenuti fino ad ora e spero davvero davvero tantissimo che vi stia piacendo.
A domenica!
-A.

Kajira - L'erede delle nevi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora