XIII

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L'alba era giunta presto e ognuno sulla nave aveva iniziato le proprie attività: c'era chi dava istruzioni sulla rotta da seguire, chi si preparava per scaricare pesanti casse contenenti merci di scambio o da vendere nel primo porto che avrebbero raggiunto. Tutti avevano trascorso la notte in solitudine, cullati solo dal dolce respiro del mare e dalle sue onde piacevoli e non troppo alte. Varg e Sofya, invece, erano stati cullati l'uno dal respiro dell'altra e avevano preso sonno con i visi vicini, i corpi ancora avvinghiati, intrecciati. Avevano trascorso un sonno lungo e senza sogni, ristoratore. In quelle ore non avevano più avuto timore del viaggio, della sorte, del fato: tutto era calmo, quieto.

Varg si rigirò nel giaciglio, tormentato da strani pensieri, pensieri carichi d'ansia e preoccupazione. Non v'era alcun reale motivo per cui dovesse temere l'incombenza di un pericolo, tuttavia una morsa alla bocca dello stomaco quasi gli mozzava il respiro.

«Non dovresti agitarti così, marito.» una voce calda, ancora impastata dal sonno, gli arrivò alle orecchie.

Sofya.

«Non sapevo fossi sveglia. In ogni caso questa non è una taverna, dobbiamo lavorare finché non saremo al prossimo porto, senza farci notare.» rispose lui freddamente dopo aver esitato per alcuni istanti.

L'espressione sul volto di Sofya mutò di colpo e lei si rannicchiò in posizione fetale, tenendosi le gambe con le braccia, come una bambina. Varg sembrava già aver dimenticato quella lunga notte che avevano trascorso insieme. Sofya si sentiva tradita, usata, per un attimo aveva davvero sperato e creduto che quel gesto fosse stato compiuto con amore ma, evidentemente, si era sbagliata. Per un unico, singolo e breve istante aveva abbandonato arbitrariamente la propria condizione di schiava, tornando ad essere una ragazza, una donna.

«Pensavo fosse di più.» sussurrò lei, senza aver ricevuto il permesso di proferire parola.

Varg, già in piedi e in procinto di vestirsi, si voltò di scatto, mostrandosi nudo, con ogni sua debolezza umana.

«Sofya, io non l'ho fatto perché sei una schiava, una kajira.» disse lui, sospendendo la frase con un lungo sospiro.

Sofya, al contrario, trattenne il fiato fino a sentire i polmoni bruciare, esplodere. Non sapeva cosa volesse dirle, dove volesse andare a parare con quel discorso. Se non era una schiava, allora cos'era?
Si guardavano, ma nessuno dei due sapeva esattamente cosa dire. Varg voleva trattare la giovane come una donna, non come una schiava, un oggetto, ma facendo ciò avrebbe dovuto necessariamente moderare i termini: non poteva certo rivolgersi ad una signorina con termini tanto rozzi e barbari, né poteva tuttavia spezzarle il cuore come un bruto, una bestia. Non era bravo con le parole, ma decise di dire la verità, non volendo problemi in seguito.

«Sofya, il fatto è che- » fu brutalmente interrotto da tre forti colpi sulla porta in ferro, quindi finì in fretta e furia di vestirsi.

I colpi non cessarono e anche Sofya, spaventata, iniziò a recuperare ed indossare le poche vesti che aveva con sé. In teoria nessuno, a parte il capitano della nave, conosceva la loro ubicazione precisa sull'imbarcazione, nonostante fossero stati in molti ad averli visti salire a bordo. Varg prese un profondo respiro, cercando di calmare i nervi e allentare la tensione: chi poteva mai essere se non il capitano stesso?
Decise dunque di aprire la porta, lasciando entrare un minuscolo spiraglio di luce ed aria all'interno dell'ambiente angusto, tentando di mantenere un comportamento da vero uomo, una postura eretta e sicura. L'adrenalina gli scorreva nelle vene, invadendo ogni minimo spazio vuoto, disponibile, facendo battere il suo cuore all'impazzata, come dopo una lunga e stancante corsa tra i boschi. Aprì la porta con estenuante lentezza, cercando di figurarsi il volto del suo interlocutore, chiunque egli fosse stato.
Sofya si nascose intanto in un angolo, rannicchiata sul pavimento e con il volto tra le gambe, cercando di farsi piccola per non essere vista. Era spaventata, tremava come una foglia e non voleva assolutamente che Varg aprisse la porta e li mettesse in pericolo, rischiando che qualcuno scoprisse la loro posizione o le loro intenzioni.

L'uomo spalancò la porta senza più indugiare, desideroso di conoscere, di sapere. Poteva essere per una questione importante, potevano averli traditi, messi in mano ai gendarmi, ai pirati che avevano ripreso da qualche decennio a solcare i mari. Aprì la porta con la speranza di ricevere almeno una risposta plausibile per tutto quel baccano, una risposta che potesse placare i suoi dubbi, i suoi turbamenti. Aprì la porta con la speranza di capire, ma al di là della spessa lastra di ferro non v'era nulla, nessuno.

Varg si voltò di scatto verso Sofya e un'occhiata interrogativa balenò contemporaneamente sui loro volti pallidi, magri, scavati dalla fame degli ultimi giorni. I loro respiri erano pesanti e irregolari: sapevano bene entrambi che nessuno su una nave come quella avrebbe mai sognato di ficcare il naso in stanze, locali o aree proibite. Qualcuno, evidentemente, sapeva bene dove avessero alloggiato durante la notte, chi fossero e cosa ci facessero lì.
Poi Varg rivolse lo sguardo verso qualcosa di piccolo e nascosto, posato sul pavimento e incastrato sotto la pesante porta di ferro a cui era ancora aggrappato. Era un pezzo di carta giallognola, gualcita e accartocciata, ripiegata su se stessa due volte, un messaggio. Varg lo raccolse dal pavimento socchiudendo la porta e fece avvicinare Sofya con un gesto impaziente della mano, affinché anche lei potesse leggere gli strani simboli scritti accuratamente al centro della pagina con inchiostro nero.

"Я вижу тебя, я смотрю"

«Non capisco, che diamine è tutta questa roba? Cosa significa?» sussurrò alla giovane, parlando piano per non essere udito dall'esterno.

Lei prese il foglio di carta, lo studiò, lo esaminò con cura e lo posò sulle gambe, prendendo un profondo respiro. Aveva il battito cardiaco accelerato, la testa che pulsava e doleva, le mani che tremavano, ma doveva necessariamente farsi coraggio e spiegare al proprio padrone cosa fossero quei simboli, che significato avessero. Non appena si fu calmata abbastanza da riuscire a mettere insieme e in ordine ogni pensiero, finalmente, si decise a parlare.

«Ya vizhu tebya, ya smotryu. "Ti vedo, ti osservo", è quello che c'è scritto.» disse lei con flebile voce, leggendo a stento quei caratteri un tempo così familiari e vicini ed ora quasi estranei, sconosciuti alla sua mente.

Varg la guardò perplesso. Non sapeva che conoscesse altre lingue, per la verità, non sapeva neanche che quella fosse una lingua vera e propria, in grado di essere capita e parlata da esseri umani come lui. A primo impatto erano sembrati solo stupidi e inutili segni tracciati con l'inchiostro, nulla di più di un mucchio di linee casuali frutto di una mente infantile o disturbata. Ora che però aveva compreso il significato nascosto di quei caratteri si chiedeva per quale assurdo motivo le parole fossero state scritte in una lingua diversa dal norvegese.

Ci fu però qualcosa di più importante della lingua, dei caratteri, dell'inchiostro, che Varg capì a pieno solo dopo minuti interminabili di silenzio tombale, pausa di riflessione e conforto in pensieri forse migliori.

«Siamo stati scoperti, Sofya.» le disse d'un tratto, puntando le iridi glaciali in quelle della giovane donna che gli stava davanti, spaventata, terrorizzata.

C'era qualcuno sulla nave che sapeva di loro, che li conosceva bene e che li osservava da tempo, forse giorni.
C'era qualcuno che remava contro di loro, ma questo qualcuno era privo di volto, di identità.

Kajira - L'erede delle nevi.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora