Aldilà della terra, mondi inesplorati

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Poche sono le ore che mi restano su questa Terra. Ore d'incubo, nelle quali sento la necessità di svagare la mia mente e lasciare la mia testimonianza.

Scriverei della mia vita e delle mie opere, della mia infanzia e della mia carriera, ma il tempo è spietato, e sento l'epilogo della mia esistenza essere sempre più incombente. Della mia vita, dunque, scriverò solamente quanto segue: sono nato tra le amene colline del New England, e là rimasi sino a quando, appena adolescente, i miei genitori morirono innanzi ai miei stessi occhi, travolti da un folle sul ciglio d'una strada. Quel giorno conobbi la morte, e da subito l'amai: l'amai come punto di fine e d'inizio, come oscura danzatrice ed antica comare.

Mi trasferii, così, dai miei zii, nella grigia Manhattan, e là completai gli studi in Tanatologia. Dopo anni ed anni di ricerche, affiancate dal conseguimento di una seconda laurea, in Psicotanatologia, ottenni la cattedra d'insegnamento nel campus di Londra, ove mi trasferii in una tepida estate che fu tra le più belle della mia vita.

Come da tre anni ormai, ad ogni "anniversario" del mio insegnamento son solito regalarmi un viaggio ispirato alla mia passione e quest'anno, il quarto, ho deciso di farmi dono d'un soggiorno nella splendida città di Amburgo, in Germania, cogliendo l'occasione per poter visitare il più grande cimitero civile che l'Occidente abbia mai ospitato: l'imponente Cimitero di Ohlsdorf.

Arrivai nella città anseatica nel pieno pomeriggio del 27 ottobre di questo stesso anno, e mi ripromisi da subito che, passato un giorno di riposo, mi sarei avventurato l'indomani stesso, di sera, ad ammirare gli splendidi monumenti del sepolcreto.

E così fu.

Erano pressappoco le nove di sera, quando, dopo un'infima cena in hotel, mi ritrovai ad ammirare, con incredibile estasi, la scritta smaltata "Friedhof Ohlsdorf" posta all'entrata del cimitero. Le temperature erano straordinariamente basse ed io, non essendo abituatovi, tremavo tanto dall'eccitazione quanto dal gelo, ammirando il riflesso tenue della neve sull'inferriata d'ingresso. Trovai strano, di primo acchito, l'assenza di vedove, famiglie ed amici all'interno dell'edificio pubblico, ma tanto ero gioioso ed eccitato che non vi prestai attenzione.

Ah, quanto fui cieco, e quanto me ne pento!

Avevo ottenuto una sorta di permesso ufficiale, in virtù della mia carica di studioso, per poter restare nell'area sepolcrale sino a tarda ora. Come già accennato, un sottile strato di neve ricopriva il suolo, e le lapidi, perlopiù nere o brune, erano poste in notevole contrasto con l'erba circostante, quasi a sembrare busti umani impegnati nel tentativo d'una fuga dal terreno. Passarono così quasi due ore, nella placida serenità degli autunni tedeschi, mentre la meravigliosa Luna del Sangue d'ottobre risplendeva, candida e piena, nel cupo cielo spoglio d'ogni stella. Di tanto in tanto il mio cuore sussultava, quando passavo di fianco statue antropomorfe e spettrali come poteva essere quella del Destino, o gli angeli posti a sommo della famiglia Hassen; confesso che, quando mi voltavo e le sbirciavo con la sola coda dell'occhio, in tralice, mi parevano quasi sorridermi. "I tuoi colleghi riderebbero di te!", mi ripetevo poi, ironico.

S'era prossimi alla mezzanotte quando rimasi sorpreso, e, in parte, spaventato, da un incipiente ronzio di cui non riuscivo a carpire l'origine. Non vi prestai molta attenzione, pur restando attento, e proseguii il mio vagare tra le lapidi, appuntandomi, curioso, quei nomi celebri che avevo già udito prima, tra i banchi e la cattedra, sussurrati a voce bassa per non farsi sentire.

D'un tratto quasi mi sentii mancare: udii, nitidamente, quell'empio suono far proprie le note ed il ritmo di quell'orrida sonata di Tartini, Il Trillo del Diavolo, come fosse recitata da altrettanto dissacratori ed evanescenti violini, di cui vanamente cercavo la collocazione.

Una campana scoccò la mezzanotte.

Ah, se solo non mi fossi trattenuto ancora!

I cancelli vennero chiusi, lo sentii chiaramente, ma non me ne preoccupai, preso com'ero dallo spavento e dall'eccitazione. Ebbi quasi l'impressione che quell'onirica melodia provenisse, cupa, dal "Giardino delle donne", quell'area del sepolcreto ove tutt'oggi giacciono decine di celebri fanciulle. Vagai tra le loro tombe, sino a quando non mi parve d'aver individuato la fonte della sacrilega composizione, alla quale s'era affiancato un canto gutturale che mai augurerei a qualcuno d'udire: una scultura, sorta di vasca turchese sorvegliata e custodita da due giovani velate.

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