2. LA GRANDE DEPRESSIONE

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Lunedì, 23 febbraio 1931 – ore 04:22

Non riesco a dormire. I primi effetti della reclusione iniziano a farsi sentire. Mi sento impazzire qui dentro. Le celle non verranno aperte prima delle 5:00.

Fatemi uscire da qui. Non ne posso più di queste stupide regole. Sono assonnato, eppure non riesco a chiudere gli occhi. Forse è colpa dei sonniferi che mi hanno somministrato ieri sera. Si, dev'essere stato quell'infermiere, Elias. E' così sbadato. Dovrebbe esserci lui qui, al mio posto.

Il sole sta per sorgere. Finalmente posso impegnare il tempo in qualcosa di utile e sfogarmi tra le pagine di questo diario. Depressione. Odio questa parola. Così pregna di malessere e negatività. Probabilmente, però, è azzeccata. Questo malessere che mi porto dentro altro non è che un'acuta forma di depressione. La stessa che qualche anno fa ha portato via il mio lavoro, la mia intera esistenza. In un certo senso.

Allora non sapevamo cosa stesse accadendo, né tantomeno eravamo in grado di attribuire un nome a quel corso di eventi che nel giro di qualche mese ridusse in cenere l'intera economia del Paese. Se ne iniziò a parlare verso la fine del '28, ma nessuno gli prestò la dovuta importanza. Io so che non lo feci.

Fu solo un anno più tardi, nel dicembre del '29, che tutte le voci su quell'ipotetica crisi fiscale, in atto da mesi, mi colpirono in prima persona. Era il terzo lunedì del mese e, come di consueto, mi incamminavo al lavoro per le prove dello spettacolo di Natale che avremmo dovuto presentare entro qualche giorno.

Non appena varcai la soglia dell'Heirloom Theater, notai subito l'espressione turbata del Signor Templeton, il proprietario del teatro. La brutta notizia non tardò ad arrivare: fui licenziato il giorno stesso.

«L'intrattenimento è un lusso che ormai possono permettersi in pochi, Moslack...»

Queste furono le motivazioni del Signor Templeton. Le sue parole mi colpirono come un macigno in piena fronte. Tutte le voci circolate tra le vie di Chicago per mesi e mesi, alla fine risultarono essere veritiere.

La crisi era iniziata. Gli spettacoli teatrali divennero inaccessibili a molti, e noi artisti ne pagammo il prezzo. Da lì in poi l'intero benessere economico del Paese toccò presto il fondo del barile, provocando un malessere ed un malcontento generale come pochi prima d'allora.

Ma il vero scossone che mi ha definitivamente lanciato verso il precipizio fu un altro.

Se non fosse stato per mia moglie Joyce, probabilmente l'avrei fatta finita subito dopo il licenziamento. Grazie a lei sono riuscito a tenere stretto il mio sogno, attraverso impieghi a breve termine nei teatri che rimasero in piedi finché poterono. Riuscii a mandare avanti la mia famiglia per altri sei mesi.

Dopodiché, portato a termine l'ennesimo impiego pagato con 3 settimane di ritardo, nel luglio del 1930 decisi di abbandonare definitivamente la professione.

Le Origini Del Male (A Stanley Prequel)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora