10.2 Decisioni

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Veer era intento a parare, con uno scudo squadrato di solido acciaio, grezzamente lavorato perchè adattato al solo scopo di allenarsi, i tentativi d'attacco di Arian

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Veer era intento a parare, con uno scudo squadrato di solido acciaio, grezzamente lavorato perchè adattato al solo scopo di allenarsi, i tentativi d'attacco di Arian. Era sempre parso un bambino tanto piccolo quanto indifeso, in balia dei risvolti della sorte, ma con in mano uno stocco dalla lama fine ed appuntita assumeva tutt'altro aspetto. Si muoveva silenzioso ed attento, osservava ogni singola mossa del padre in attesa del momento giusto per un affondo che, però, veniva puntualmente parato. L'esperienza era ancora troppo limitata e dopo anni in cui non aveva potuto accumularne altra, risultava improbabile che riuscisse ad avere la meglio.
I colpi secchi che cozzavano tra la spada e la protezione di Veer erano tanto forti però, da risuonare per tutto il piazzale in cui si stavano affrontando; Vissia, la quale si trovava seduta sotto il porticato che andava snodandosi circolarmente al ridosso del luogo dello scontro, più volte era stata tentata di coprirsi le orecchie per il fastidio. Il clangore metallico delle armi era un suono a cui non riusciva ancora ad abituarsi, nonostante fossero quasi dieci giorni che si trovava a Thora Koshra e lo avesse udito per altrettanti. I duelli rientravano nella sfera della normalità, i soldati più giovani davano vita a vere e proprie battaglie testa a testa ovunque si trovassero, mentre i più anziani si allenavano in disparte, dove nessuno potesse scorgere le debolezze dell'età avanzata ed usarle a proprio favore. Molte volte, quelli più animati, attiravano talmente tanta curiosità da ricamarsi intorno un corteo urlante, che instillava coraggio e violenza tra i combattenti. Vissia ricordò gli astanti che avevano assistito al duello tra Veer e Maitreya, ricordò come fossero rimasti in silenzio fino alla fine. Era strano, il comportamento di coloro che sostavano nel castello. In presenza del sovrano assumevano un atteggiamento umiliante e discreto, mentre fuori dalla sua vista scatenavano una confusione indescrivibilmente irritante, quasi dovessero momentaneamente liberarsi delle costrizioni imposte dalla posizione che ricoprivano.
« Non distrarti. Sei morto. » Vissia tornò con la mente alla realtà ed udì Veer rimproverare vanamente Arian, intento a non ascoltarlo. Improvvisamente il figlio aveva dissolto la concentrazione ed allentato la presa sull'elsa, gesto che non era passato inosservato al padre, il quale aveva colto l'occasione per sfilargliela di mano. Era stato del tutto inutile, il bambino non aveva battuto ciglio né tentato nemmeno di ribellarsi. Pareva essersi estraniato dal contesto presente per riversarsi in uno più interessante e sconosciuto.
« Ascolta. » le parole gli uscirono dalle labbra soffici sotto forma di un bisbiglio e rivolse i grandi occhi chiari alla ragazza, per invitare anche lei a far parte di quella sua scoperta. Sia Vissia che Veer calarono allora in un silenzio carico di attesa, entrambi con l'udito affinato per captare i suoni che così visibilmente avevano colpito Arian. Veer fu il primo a percepire l'ululato lontano del Fenrir e dopo lui la ragazza sbarrò le palpebre, sorpresa ed intimorita dalla melodia dolente che il lupo stava intonando.
« È Kaitos. » direzionò lo sguardo oltre un'arcata da cui inverosimilmente si aveva l'impressione provenisse l'eco dell'animale e lasciò cadere a terra lo stocco, attraversato da un brivido. Era raro, rarissimo, aver l'onore d'assistere al lamento tetro e seducente dei Fenrir, esso preannunciava sventura, dolore e morte. Rappresentava il respiro affranto della terra, le atrocità di cui si era macchiata, la richiesta d'aiuto nella speranza perduta. Ma non solo, la primordialità di quel suono era anche passione, coraggio e forza, lo spezzarsi delle catene, lo spiccare il volo delle aquile ed il crescere muto dei fili d'erba. Phalestér, la Dea della Natura, aveva rinunciato alla propria voce per donarla a loro, gli annunciatori del suo sacro volere.
« Maitreya » un sussurro inatteso dischiuse la bocca di Veer, come un bocciolo di rosa fiorisce in primavera, e le sue spine gli trafissero il costato, costringendolo ad inspirare più affannosamente
« Qui. Rimanete qui. Tutt'e due. » ordinò duramente, squadrando accigliato i diretti interessati. Poi iniziò a camminare troppo velocemente verso il corridoio che si affacciava al piazzale, luogo da cui, ragionò, avrebbe compreso meglio la provenienza indefinita degli ululati. Si accertò che non lo stesse seguendo né Vissia né suo figlio ed iniziò a correre nel fitto del castello, passando a fianco di stanze buie, vuote e senza mobilio o porte spalancate, da cui si intravedevano le persone conversare al loro interno, rischiarate dal fuoco ardente nei camini. Non un singolo di quelli che vide fu turbato dal dolente gemito del lupo, tutti erano troppo impegnati ad affrontare le proprie questioni per badare all'ammonimento dei Celesti. Come si poteva essere tanto stupidi da non capire? Kaitos non era una bestia irragionevole, non avrebbe mai prodotto tanta attenzione se non per un motivo che superava qualsivoglia preoccupazione soggettiva.
Giunse ad un incrocio di quattro corridoi, che si riversavano l'uno nell'altro tutti uguali. Si fermò nel centro alla ricerca disperata di un indizio che lo inducesse nella direzione giusta; questo non attese a mostrarsi, forse sospinto dal volere della Celeste stessa, che ardeva di desiderio affinchè qualcuno interpretasse il suo messaggio. Imboccò quello meno illuminato, dal quale i lamenti giungevano più sonoramente massicci e si rese conto dopo pochi passi che il pavimento lo stava trasportando verso le prigioni. Le pietre si facevano nere ed il percorso, pur essendo stato aggiunto in epoca più recente di quella delle carceri nelle viscere di Thora Koshra, appariva sporco e per nulla invitante. Era palese da quanto tempo non venisse utilizzato con una certa frequenza, Maitreya non aveva la pazienza di aspettare una morte lenta o una confessione per sfinimento. Le sue alternative s'aggiravano solo su due perni: esecuzione o tortura, era convinto di saper convincere chiunque a sciogliere la lingua con un ferro rovente stampato in faccia o una mano senza dita. E dopotutto non sostava così tanto nel torto, i malcapitati sciorinavano effettivamente ogni loro conoscenza, vera o falsa che fosse. L'importante per loro era porre fine ad una tale sofferenza mediante una morte più veloce e meno dolorosa. Nessuno usciva vivo dalla prigionia, perlomeno non da quando il suo migliore amico era diventato Rekkar.
Incrociò il muso del lupo impreparato. Svoltò l'ultimo angolo prima dell'entrata, con ancora la testa squassata dai pensieri, e lo vide prender forma dall'ombra che sembrava essersi stipata a ridosso della parete addosso cui Kaitos era seduto. Gli occhi scarlatti bruciavano nel buio e si chiudevano ad intervalli regolari per permettere al Fenrir di alzare il muso al soffitto ed ululare. S'interruppe non appena captò la presenza di Veer, permettendogli di ascoltare un gemito assai più cupo del suo, che minuziosamente aveva tentato di coprire con il proprio verso. L'eco di gutturali grida si sprigionò ininterrotto oltre la porta chiusa di legno scadente, crudamente rafforzata da inserti in ferro battuto. Per un primo momento, credette si trattasse di Serhatan. Ma se così fosse stato, Kaitos non avrebbbe avuto motivo di nascondere quei suoni, suo cugino non aveva importanza per l'animale. Realizzò l'evidenza in un secondo tempo, dopo aver interiorizzato l'idea che si trattasse di Maitreya. Sospinse l'imposta verso l'interno e la scoprì aperta, con il lupo a fare da sentinella chi avrebbe osato superarla? L'urlo che si stava spandendo venne strozzato ed un muto alone di tensione cosparse il corpo di Veer. Era certo, ora, che si stesse dirigendo a tentoni nella direzione esatta, verso il sovrano in preda ad un lampo di disperazione.
Le torce ardenti brillavano tenui nell'oscurità, scandendo ritmicamente l'inizio della galleria da cui poi si aprivano le celle, come fauci di un essere dormiente. Scorse Maitreya seduto poco più avanti dell'apertura da cui si accedeva al locale adibito ai supplizi, lercio di sangue, che baluginava vermiglio sotto il fuoco scottante situato poco più in alto della sua testa. Questo roteò gli occhi verso l'intruso e piegò una gamba, pigramente poggiandoci sopra una mano.
« Non dovresti stare qui. » sibilò, apparentemente infastidito dall'arrivo dell'amico e con un'aria di fittizia noncuranza.
« Nemmeno tu. » Veer fu tentato di sederglisi accanto ma resistette, non sarebbe stata un'azione apprezzata e non desiderava indurre Maitreya ad andarsene senza prima aver parlato.
« È il mio castello. La mia casa. Posso stare dove voglio. » ribattè, tornando in posizione eretta e sovrastando Dhoveerdhan di tutte le spalle. Erano trascorsi pochi istanti, ma la tristezza sul viso del re si era dileguata come un vile ladro colto in flagrante. In sostituzione, era riapparsa l'usuale maschera di spietata superiorità. Aveva avuto la fortuna di potersi concedere del tempo nel baratro delle proprie emozioni, adesso ne era uscito, richiudendo la botola da cui si ramificavano le tenebre dell'afflizione e riprendendo possesso del suo ruolo.
« Ti ho sentito. » Veer lo trattenne per l'avambraccio, impedendogli di fuggire dal discorso che, palesemente, non voleva affrontare.
« Hai sentito Serhatan. Il sangue è suo. » gli tirò quell'insinuazione bollente addosso, sperando che lo facesse distrarre a sufficienza per lasciarlo muoversi, ma il palmo aumentò solo la presa sulla stoffa rossa.
« Kaitos stava coprendo le tue urla. Puoi negarlo, ma io lo so. So che non sei chi vuoi far vedere di essere. »
« Non mi conosci più così bene, Veer. Cinque anni di distanza sono troppi per avere la presunzione di padroneggiare ancora i miei sentimenti. Cinque anni di solitudine possono uccidere anche la più radicata delle amicizie. » gli rivolse uno sguardo carico di rancore e tirò con prepotenza il braccio per svincolarsi dall'impedimento. Non aveva più voglia di spiegarsi, confidarsi e liberarsi dalle proprie pene, le aveva sopportate solo sulle proprie spalle per così tanto tempo da non sentirne la necessità. Poteva affrontarle senza nessuno al suo fianco.
« Non ho abbandonato tutto quanto per egoismo » nel parlare, Veer sentì una scure calargli sul petto e premervi sopra per frantumarlo « ho dovuto farlo, per Arian. »
« Perchè sei tornato, allora? »
« Non sarei dovuto tornare, te l'ho detto » allentò la forza con cui stava stringendo il pugno sull'avambraccio del sovrano, convinto che insistere sarebbe stato inutile. Maitreya gestava in una predispozione al conflitto, in quel momento, e nulla l'avrebbe fatto desistere dall'ingaggiare un litigio sforzato e piuttosto fittizio; cosa che non avrebbe giovato a nessuno dei due « mi ero quasi abituato a non essere più me stesso. »
« Io mi sono abituato. » gli rispose, cominciando ad allontanarsi senza però voltare completamente le spalle all'amico. Aveva appena detto cose che non pensava ed il suo orgoglio, ancora una volta, stava guerreggiando per avere la meglio sul buon senso. Vinse il primo, come sempre, e rivolse la schiena a Veer con un visibile velo di lacrime a coprirgli gli occhi. Era come essere incatenati alla parte peggiore di se stessi: te ne potevi discostare qualche passo, ed a fatica, ma le catene non si spezzavano, anzi; raggiunta la massima distanza, ti riportavano esattamente al punto di partenza.
« Puoi scappare dalle mie parole, Maitreya. Ma da te stesso no. » Dhoveerdhan parve leggergli nel pensiero e la frase, simile ad una freccia, gli si conficcò tra le costole. Accelerò il passo prima di incespicare sulla carcassa del suo animo tramortita da quell'attacco e Kaitos ululò ancora, finchè la mano sudata e tremante del padrone non lo zittì.

 Accelerò il passo prima di incespicare sulla carcassa del suo animo tramortita da quell'attacco e Kaitos ululò ancora, finchè la mano sudata e tremante del padrone non lo zittì

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Le Cronache di Meknara - Sangue di DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora