16.1 Parole

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Il perimetro del cortile principale di Thora Koshra, il quale si srotolava simile ad un tappeto su un lato dell'entrata principale, poteva tranquillamente concorrere per grandezza con la Sala del Trono di Ohlma Koshra

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Il perimetro del cortile principale di Thora Koshra, il quale si srotolava simile ad un tappeto su un lato dell'entrata principale, poteva tranquillamente concorrere per grandezza con la Sala del Trono di Ohlma Koshra. Era una distesa di prato racchiusa da mura di cinta esagonali, curata e degna beffa dell'inverno alle porte, ancora smeraldina come in primavera. Pareva voler combattere l'imperterrito gelo dell'Ostro. Gli steli d'erba, tagliati corti, erano tenuti in vita da un terreno pregno d'acqua mista a néwhar, un intruglio di resine e collanti naturali confezionato con il favore del calore del sole e la secchezza del vento.
Esso era stato creato dalle mani dell'uomo che ora vi stava camminando sopra con le proprie poulaine, non badando a dove fosse diretto ma semplicemente osservando i dettagli di quel luogo pianeggiante ed immenso. Ricordava la nascita del cortile, sotto il regno del quarto Rekkar dei Fenrir, Ethen Enoch, denominato l'Artista e spodestato dopo pochi anni dal fratello minore, più adatto all'indole irruenta della sua stirpe. Era stato lui a chiedergli di trovare un modo per ottenere un prato sempreverde a cui volgere lo sguardo nei tempi più bui, per ricordarsi che la vita cresceva anche nella sua arida ed incolta Terra. Almashan non aveva potuto negargli una richiesta tanto innocente: quella sua opera era l'unico ricordo rimasto del sovrano, cancellato dal tempo e dalla breve durata del suo potere.
Il Grande Sapiente, però, riusciva a rimembrare lo stesso i suoi lineamenti aggraziati e gentili, le sue mani senza calli, chiuse a pugno attorno un pennello anziché un'elsa, i suoi occhi puri e scevri di cattiveria. Era ancora piccolo Ethen quando fu ucciso a mani nude da Elian, sangue di lupo della stessa tempra di Elnath, quinto ed ultimo reggente facente parte del pentagono delle grandi E, i figli dei figli del capostipite: Elnath Enoch, Erian Enoch, Estian Enoch, Ethen Enoch ed infine Elian Enoch.
Almashan li aveva conosciuti tutti, era stato posto dai Celesti al servizio dei Fenrir e ci sarebbe rimasto, se solo non fosse iniziata la caccia alla sua razza, dettata da uno spietato desiderio degli uomini mortali di sentirsi superiori a quanti avessero al loro fianco. I Grandi Sapienti erano diventati così figure fastidiose, insegnanti assetati di iniquo potere con l'unico scopo di rovesciare i regni istituiti e prenderne il comando. Una tale falsaria credenza, germogliata tra le bocche ignoranti del popolino, aveva poi preso il sopravvento anche sulle menti istruite dei nobili, grazie a mediatori dall'indole di approfittatori. Tra questi, i rappresentati del Nuovo Culto, i Grandi Sapienti di Seconda Generazione, di cui faceva parte il ratto di corte incontrato sulla strada per giungere al cortile. Mihir, si chiamava. Si era piegato riverente al passaggio di Almashan, nonostante l'età e gli acciacchi alle articolazioni, chiedendogli una mano ed il permesso di baciarla. Si era scansato da lui, negandogli la richiesta e scrutando le menzogne intessute nei suoi occhi chiari, per infine continuare a camminare e lasciarlo indietro, nella sua pozza di umiliante servilismo. Poteva capire il motivo per cui era stato preferito un uomo simile a lui, ai sovrani non piace essere ripresi, ed ancor meno amano essere contraddetti. La sua razza era stata plasmata dal ventre degli Originari per quel preciso scopo, era inevitabile che un giorno sarebbe stata sradicata e messa da parte.
« Almashan » Cassivellanus richiamò l'attenzione del precettore, fermatosi nel centro esatto del cortile per ammirarne la semplicità pregna di memorie « quanto tempo dobbiamo rimanere a Menastir ancora? Non mi piace questo posto, è saturo di cattiveria, la stessa terra ribolle d'odio sotto i piedi dei suoi conquistatori. »
« Rimarremo finché non sarà necessario, Cass. Abbiamo bisogno d'incontrare l'altra metà della famiglia reale, e giungere qui da Bernovem è un lungo tragitto. Sii paziente e non parlare troppo » il Grande Sapiente rivolse uno sguardo al cielo, intravedendo Matar attento ai loro movimenti, alto tra le nuvole « piuttosto, credo sia necessario ridefinire il modo di approcciarti ai tuoi sottomessi. L'ultima volta hai preferito mostrarti debole e transigente per non dover punire anche tua madre. Non accetterò un altro comportamento simile al nostro ritorno, non devi apparire debole o la morte è il tuo destino, ed io non posso cambiare il destino. »
Cassivellanus abbassò lo sguardo, deglutendo e scostandosi una ciocca dal viso macchiato: era consapevole di essere andato contro la logica e l'assennatezza degna di un sovrano, ignorando volutamente il fallito tentativo di ucciderlo. Ma era anche consapevole della necessità di cucire un filo di coerenza tra le sue azioni. Se avesse mosso accusa contro Cyphrine, se avesse deciso di infliggergli una punizione, avrebbe dovuto fare lo stesso con i suoi sostenitori, tra cui figurava Nueeq. Dunque, essendosi appena ricongiunto con la madre, avendo perso il padre e non avendo nemmeno avuto il tempo di discutere con lei riguardo il suo folle gesto, aveva deciso di seppellire l'infelice evento privo di ripercussioni. Non gli era sembrato nulla di così inaccettabilmente grave, anche se Almashan non si era risparmiato nell'evidenziare il suo disappunto. Un re debole è un re morto, glielo ripeteva troppe volte al giorno e Cassivellanus si sentiva sempre più piccolo e schiacciato dalla corona sul suo capo. Non era un sovrano, lui, non era stato cresciuto per diventarlo né tanto meno aveva creduto di dover mai fare i conti con la discendenza del suo sangue. Aveva vissuto arando i campi e seminando il grano, scottandosi la pelle d'avorio sotto il sole e spaccandosi la schiena con il lavoro. Non sapeva cosa significasse l'agio, vivere senza guadagnarsi le cose, approfittarsi del proprio titolo per soverchiare gli altri. Le percosse conquistate in vent'anni d'esistenza erano bastate ad insegnargli dove fosse il suo posto, tra le erbacce e lo sterco. Non di certo su un trono.
« Credi proveranno nuovamente ad uccidermi? » chiese, umettandosi le labbra secche e sfregandosi le mani, a disagio.
A Menastir nessuno lo guardava storto per il suo aspetto, nessuno lo considerava uno scempio, un abominio, le persone lo osservavano passare e non distoglievano mai la vista inorriditi. Era come se la sua condanna lì non fosse mai arrivata, eppure intuiva una sensazione di sbagliato in tutto quel rispetto. Era un rispetto imposto, dovuto e preteso, non un atto volontario. Lui era un Rekkar, gli altri erano suoi sudditi, dovevano abbassare il capo e non fiatare, esattamente come facevano con Maitreya. Quando lui passava per i corridoi del castello ed incontrava qualcuno, necessariamente quei malcapitati si inchinavano, inarcando in avanti la schiena fino a toccare terra. Dalle loro bocche uscivano parole riverenti, ma sussurri viscidi e malevoli rimanevano impigliati tra un dente e l'altro, perché qualora fossero diventati frasi squillanti, la loro testa sarebbe stata recisa di netto senza nemmeno aver finito di parlare. Forse era per quello che il sovrano dei Fenrir s'aggirava sempre con lo spadone al fianco, le dicerie su di lui erano all'ordine del giorno. Ed effettivamente, Cass le aveva persino udite, tra un passo e l'altro, fuoriuscire a tradimento da una porta chiusa. Maitreya non era amato, era temuto. Lui non voleva essere temuto, non voleva essere odiato. Almashan non pareva volerlo capire.
« Io non lo credo, io lo so. La nostra assenza sarà piuttosto prolungata, un'occasione simile Cyphrine non se la farebbe mai sfuggire. Ho anche pensato di fare un salto a Ctekratos nel mentre, soltanto per gustarmi la sua espressione inebetita. Temo si alleerà con Ferni se non lo fermiamo prima. »
« Fermarlo? »
« Ucciderlo, se non gradisci gli eufemismi. Tuo cugino deve morire, Cass. Solo con la sua morte guadagnerai il rispetto dovuto ad un re » Almashan arrestò la camminata lenta e rivolse al suo interlocutore un'occhiata carica di amarezza « come pensi di affrontare una guerra con la bontà, mio dolce fiore? Sei una rosa a cui mancano le spine, chiunque ti veda potrebbe coglierti e condannarti. »
« Non voglio diventare cattivo, non voglio diventare spietato, non voglio essere capace di uccidere. Io vedo negli occhi di Maitreya una disperazione più nera della mia, vedo in lui il dolore di un predatore costretto a cacciare per non farsi sbranare dagli altri, stanco del proprio ruolo. Stanco della vita. Non voglio diventare così, Almashan. Ho sofferto abbastanza » si lamentò Cass, arrestandosi a sua volta e lottando con se stesso per mantenere lucidità e compostezza. Quel discorso gli faceva male, intrinsecamente male. Andava ad aprire ferite mai rimarginate, vecchie sofferenze e mancanze attuali. Sentiva la sua incapacità posta in primo piano e condannata alla lapidazione. Vedeva se stesso schiacciato dalle pietre scagliate da mani che non avrebbe creduto possibile di tanta ferocia e malvagità. Vedeva la sua morte e non era neppure così dispiaciuto.
« Non prendere Maitreya come esempio, quell'uomo ha vissuto l'ingiustizia dell'universo sulla propria pelle e l'ha saputa assorbire. Non si duole per il suo ruolo, soffre per tutto il resto. Non diventerai come lui, hai avuto ed hai al tuo fianco persone che, nonostante tutto, hanno saputo amarti. Ma devi lo stesso cambiare, rafforzarti, indurirti. Uno scudo di vetro non ha alcun valore per quanto perfetto; uno di metallo può essere rovinato dalle più dure intemperie del mondo, eppure saprà sempre e comunque difenderti. Sii quello scudo per te stesso, non sradicare la tua natura. Proteggila e mostrala solamente quando le frecce avranno smesso di pioverti addosso. »
Le sopracciglia di Almashan si stropicciarono insieme alla cute della fronte.
Parlare con Cass non era un'impresa da tutti, il rigoglioso e fiorente animo buono del sovrano era difficile da potare e tenere al proprio posto. I suoi occhi ammiravano le situazioni da prospettive diverse, inusuali e piuttosto incomprensibili persino per un Grande Sapiente. La bontà non era considerata tra le grandi virtù dei Celesti e degli uomini, poteva essere un abbellimento in una ghirlanda di ortiche, un giglio bianco posto tra un rovo e l'altro per mitigare la desolazione di una tale visione. Ma di sicuro non poteva conquistare un posto di rilievo, pena la sconfitta e, forse, persino l'estinzione.
« Perché la forza deve necessariamente implicare violenza? Non lo capisco, non posso essere buono e rispettato allo stesso tempo? » Cass spostò il peso da un piede all'altro, alzando lo sguardo alla propria Manticora e quasi chiedendole di dargli il favore della sua resistenza interiore, quella medesima di cui lui era radicalmente stato privato. Non si considerava un uomo, si considerava un ragazzetto dall'aspetto sgradevole ed immaturo per la sua età. A ventun'anni non aver mai maneggiato una spada era una vergogna, non saper tirare con l'arco un motivo di imbarazzo. Aveva visto addirittura Vissia tentare di maneggiare l'arte della freccia e riuscirci meglio di lui. Certo, alle sue spalle c'era la presenza possente ed esperta di Maitreya, pronta a vegliare sui suoi errori e perfezionare il tiro, eppure non poteva usare nemmeno quella come scusa. Almashan non era da meno, anzi. Per di più in Cass scorreva sangue reale, in quella fanciulla dall'aspetto minuto e poco ordinario no, non c'erano grandi poteri in lei, grandi aspettative ad attenderla al varco. Nonostante questo, però, aveva più volontà di lui, più desiderio di migliorarsi ed emergere; perché non poteva essere lo stesso anche per lui? Bastava forse desiderarlo, impegnarsi in qualcosa ritenuto sbagliato con la speranza divenisse giusto per lo scorrere del tempo e l'abitudine? Probabilmente sì, si rispose, portandosi un'unghia a ridosso della bocca e rovinandola con piccoli ma decisi morsi.
« Cosa devo fare per farti capire che sì, la forza implica violenza? Non puoi essere circondato da fiere e pretendere di farle ragionare con la gentilezza. Questo mondo, questo intero continente è stato colonizzato da bestie affamate di potere e gloria. Non si fermeranno davanti a niente, una guerra non si placa con il pianto. Devi decidere chi diventare, se la preda o il predatore. Ma tieni a mente che qualora preferissi interpretare il ruolo della prima, io non ti potrò aiutare nel momento del bisogno. Posso aiutarti ora, quando ancora non sta imperversando una tempesta di sangue e lame, quando le nuvole si addensano e si chiudono a coprire il sole. Nelle guerre dei mortali non possiamo intrometterci materialmente noi Grandi Sapienti. Possiamo guardare, suggerire, ma non agire. Se una spada ti verrà puntata contro per tagliarti la gola, dovrò rimanere impassibile nel vederla farsi strada sul tuo collo. Quindi decidi bene Cass, imparare a difenderti o incontrare tuo padre ricoperto di vergogna. » Almashan rimase a scrutare il suo atteggiamento passivo e riverente, domandandosi come avrebbe dovuto fare per smuoverlo dalla melma d'inferiorità in cui stava sprofondando. Non voleva essere cruento, non voleva essere cattivo, ma iniziava a credere di doverlo fare. Prendere Cassivellanus di contropetto e costringerlo a proteggersi o farsi travolgere dalla furia altrui. In questo caso, la sua.
Strinse la mascella e prese la decisione di agire al posto del suo interlocutore: gli tolse la mano dalle labbra con un brusco gesto di disapprovazione e gli chiese di difendersi, di dimostrare quali fossero le sue capacità o se fosse soltanto un piccolo ed inutile ammasso di carne da macello. Un indegno successore del suo grande padre.
Attese Cass realizzasse quanto avesse udito, si allontanò di qualche passo e si prodigò nel farlo cadere rovinosamente a terra con una folata di vento di portata nemmeno tanto importante. Rimase poi a guardarlo mentre, pallido in volto, il ragazzo gli rivolgeva due occhi in procinto di scoppiare ed un'espressione infelicemente sorpresa.
« Non piangere, non fare il codardo. Alzati, rispondimi. Ti ho mostrato come si fa » lo schernì, rigettandolo con le ginocchia nel prato e non lasciandogli neppure la possibilità di rialzarsi del tutto.
Cass si scostò i capelli dal volto, socchiuse le palpebre e non riuscì a chiedere cosa il suo precettore stesse facendo, le parole gli morirono sul filo delle lingua, stroncate da un'altra caduta ed un colpo di testa più forte del precedente.
« Non voglio che mi rispondi a parole » sibilò Almashan, voltandosi di spalle per permettere alla sua vittima di rimettersi saldo sui piedi e concedendogli il vantaggio della distrazione volontaria. Auspicava con tutto se stesso Cass cogliesse quella sua azione disperata, quel suo volerlo aiutare silenzioso. Attese, attese pazientemente ed infine percepì una folata d'aria innocua scostargli la coda. Allora si voltò, in parte compiaciuto, e sorrise, rimandandolo con la schiena nell'erba.
« È tutto quello che sai fare? » ridacchiò, battendosi una mano sulla spalla « vecchio mio, questa volta il tuo insegnare è stato proprio inutile » si compatì scherzosamente, ignorando la figura davanti a lui che nel frattempo si puliva il primo rivolo di sangue, scivolato dal labbro spaccato dalla frusta delle ventate.
« Perché lo stai facendo? » gemette, assaporando di nuovo, dopo tanto tempo, il sapore ferroso di quel liquido viscoso.
Almashan non rispose, in cambio gli rivoltò il viso con due schiaffi impalpabili e feroci, i quali presto imporporirono i suoi zigomi, diramandosi tra le lentiggini. Cass fu prossimo ad un tentativo di risposta, già stava sentendo l'aria accumularsi sotto i suoi polpastrelli e sottomettersi al suo richiamo, ma il Grande Sapiente fu più veloce e lo rivoltò ancora una volta, mandando il suo corpo a rotolare tra la distesa verdeggiante. Lo raggiunse con tutta la calma possibile, incrociando le mani dietro la schiena e ghignando soddisfatto. Il novello Rekkar non sembrava essere contento della sua situazione, stava infatti cercando un appiglio a cui aggrapparsi per rialzarsi e non cedere alla sottomissione evidente. La testa gli doleva, il volto bruciava e la schiena chiedeva una tregua, eppure non voleva lo stesso rimanere fermo a farsi schernire come un tempo. Qualcosa gli impediva d'accettare quelle percosse senza fiatare, un velo di amor proprio, forse? O di dignità. Aveva conosciuto la dignità in quelle settimane e non desiderava perderla più.
Almashan gli tese una mano per aiutarlo ma lui la scansò, levandosi in piedi autonomamente. La bocca del Grande Sapiente pareva pinzata alle guance da quanto fosse tesa in un sorriso.
« Non sei un debole, Cass. Se lo fossi stato, non ti saresti rialzato » commentò il Sapiente, cingendogli le spalle con un braccio ed avvicinandolo a lui « allora una volta tornati a Ctekratos cosa faremo? » domandò, incerto su come il sovrano avrebbe reagito. Sentiva quanto si fosse lasciato andare e temeva stesse lacrimando.
« Non voglio più soffrire per colpa degli altri, Almashan » rispose, lasciando scivolare un'unica lacrima dalle ciglia, incoronazione folta e corvina delle iridi gialle, velate di un pianto trattenuto. 

 

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Le Cronache di Meknara - Sangue di DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora