La spiegazione razionale per cui l'avesse portata proprio lì, in quella stanza, Maitreya non la riusciva a trovare. Poteva dire perchè lui avesse il bisogno di vedere quel luogo, dopotutto si chiudeva là dentro quando necessitava di schiarisi le idee o prima di una decisione importante, ed era ciò che doveva fare; ma non perchè Vissia ora potesse guardare, con occhi sognanti, la raffinatezza della stanza di Gaverna.
« Era di mia sorella. » biascicò, più a se stesso che non alla ragazza. Lasciò scorrere la vista sugli oggetti, i quali non erano stati più toccati dalla sua morte: il calamaio e la piuma sulla scrivania, il libro che era intenta a copiare dalla pergamena alle pagine per puro diletto, i tendaggi del baldacchino legati con fiocchi meticolosamente simmetrici. E ancora le coperte scostate, le tende aperte per lasciar entrare la vita che l'aveva abbandonata, la brocca dalla quale le era stato versato da bere ed il calice d'oro che l'aveva uccisa, innocuamente poggiato sul comò con un candelabro. Gli rimase solo da guardare in basso, verso il tappeto, dove l'alone delle gocce di sangue, che aveva sputato prima di spirare, troneggiava tra i ricami floreali. Non riuscì a farlo, diede piuttosto le spalle alla visione ed aprì l'immensa finestra che permetteva di accedere al balcone. L'aria fredda dell'avvicinarsi di Tornèt, il duro inverno, gli schiaffeggiò il volto, come se volesse farlo tornare in sé. Gli occhi già lucidi, però, confessavano una forza che si stava affievolendo, un'insensibilità fittizia le cui crepe avanzavano secche, frantumandogli il cuore e qualunque resistenza ponesse tra lui ed il baratro dei ricordi.
Vissia intanto permaneva nell'imbarazzo di trovarsi nella stanza di una donna che non aveva avuto la fortuna di conoscere e che, dall'atteggiamento di Maitreya, doveva essere più importante di quanto desse a vedere. Aveva colto le sue spalle, massicce, ripiegarsi impercettibilmente su se stesse ad ogni passo, e l'infelicità cavalcare libera nell'espressione inutilmente dura che il sovrano si ostinava a mostrare. E con i ricci carezzati dal freddo, riusciva persino a scorgere, indistintamente, il velo di lacrime adagiatosi sulle iridi scure. Non sapeva cosa dire né tantomeno come comportarsi, eppure il residuo del suo morto istinto la invitava a parlare. Farsi avanti, dimostrargli che non era la stupida ragazzina incapace di vivere che credeva. D'altronde, per quale motivo avrebbe dovuto portarla con lui, se non per darle una possibilità di riscatto?
Si mosse nella direzione di Maitreya, intenzionata a fermarglisi accanto in silenzio, abbastanza vicina da manifestare la sua presenza. Ma lui fu più veloce, ed avanzò fino a far aderire le lunghe gambe contro la pietra del parapetto, lasciandola interdetta su quale fosse la prossima mossa da fare. Non ebbe molto tempo per ragionarci, il suo accompagnatore prese a parlare, atono, senza curarsi se lei lo stesse ascoltando; era sicuro Vissia non aspettasse altro che rompere quella insolita quiete creatasi tra loro. E poi aveva bisogno di liberarsi del peso della sua esistenza con una persona che fosse disposta a sentire. Eccolo, il motivo che l'aveva spinto a portarla appresso. Vissia sapeva ascoltare.
« Odio tutto ciò che mi circonda. Sono un re, ho terre, ricchezze ed un castello in cui vivere appagando ogni mio più frivolo capriccio; ma non mi sento a casa. Odio le persone che ho attorno, la falsità instillata in ogni porzione di pelle del loro viscido corpo, l'astio con cui mi guardano inchinandosi riverenti, convinti non lo veda. La paura dettata solo dalla mia posizione, che si sentono in dovere di mostrare per compiacermi. Non era questo che pensavo avrei ottenuto dal regnare, le storielle di bardi e cantori hanno irretito persino me » s'interruppe, ingoiando amaramente il nodo formatoglisi in gola pronunciando quei segreti tanto intimi, e riprese solo dopo che una lacrima gli ebbe diviso lo zigomo a metà « ero convinto di poter portare gloria eterna alla mia terra, volevo portarla per dimostrare al mio detestabile padre che non ero chi pensava che fossi. Mi sbagliavo, ero proprio come lui mi vedeva. Incapace, avventato, stolto ed iracondo. » lasciò defluire un refolo d'aria nei polmoni prima di continuare, quelle parole bruciavano come tizzoni ardenti nel suo stomaco e facevano male. Un male inspiegabilmente intollerabile. Gli laceravano gli organi, strappando i muscoli e squarciando la pelle per fuoriuscire come scheletri dalle tombe. Erano i suoi scheletri, quelli di un passato sepolto ma sempre in agguato, un leone tra l'erba rimasto a guardarlo con la fame negli occhi, attendendo il momento giusto per avventarsi sulla sua preda. E quel momento era arrivato, le sue difese si erano sgretolate ed aveva smarrito l'attenzione, si era distratto. Tant'era bastato per rivoltare i ruoli e trovarsi con un pugnale conficcato nello sterno spezzato, a mozzargli il fiato tanto da illuderlo di poter soffocare.
Non riuscì a racimolare ulteriore dignità per trattenersi. Gli argini erano già stati abbondantemente inondati e tanto valeva impedire che se ne creassero di nuovi. Il suo animo non avrebbe sofferto molto con un solco in più a percorrerlo. Riprese a parlare.
« L'ho ucciso solo per vendicare mia sorella, sai? Gaverna è stata l'unica persona che abbia mai amato veramente, la sola capace di controllare me e la mia ira involontaria, e lui me l'ha portata via. Quando ho saputo che l'aveva avvelenata per causa mia, ho perso il senno. Ho agito come un ragazzino avventato, assetato di vendetta ma irreversibilmente cieco. Non ho visto chi fosse colpevole e chi non lo fosse. Ho sterminato tutti, indipendentemente da che ruolo ricoprissero. Volevo macchiarmi del loro sangue, sentirlo sulla mia faccia e sapere di aver fatto la cosa giusta. Ero convinto di averla fatta, lo sono stato per troppo tempo. » Vissia lo vide arrancare nella speranza di riuscire a fermarsi, a non finire quel discorso che le stava causando i brividi ed al contempo ispirando la sua eccessiva empatia. Non ne fu in grado, né lei tentò di fermarlo.
« Quando ieri ho scoperto che il vero ed unico fautore della morte della mia amata sorella è ancora vivo, cammina al mio fianco e si diletta a mio danno con la collera che purtroppo mi appartiene, ho perso me stesso. Ho costruito un'intera esistenza su una falsità, una credenza dannosamente sbagliata. Capisci cosa significa? Tutte quelle persone sono morte vanamente, uno solo tra i due che meritavano di essere uccisi ha avuto ciò che gli spettava. L'altro è qui, nel mio castello, che mangia dal mio piatto e pende dai miei piedi. Ho inferto sofferenze indescrivibili a Mothalthin per colpa sua, perchè ho invertito involontariamente i loro ruoli. E non posso rimediare a questo, ho tolto otto anni di vita a mio fratello, per non parlare del trono che gli spettava, della moglie che aveva sposato e dei genitori che lo amavano. Mi ha perdonato, quel pazzo. Ha perdonato me e i miei errori. Sono io che non riesco a perdonare me stesso, ora. Non so più chi sono da giorni ormai, questo è stato l'ultimo soffio che ha increspato la già sfaldata quiete superficiale del mio animo. »
« Ho una guerra che bussa alle mie porte e tutto ciò che vorrei fare è piangere degli errori che mi hanno condotto fino a questo punto. Ho pianto solo due volte, in tutta la mia vita, ma ora i miei occhi non sono più in grado di arginare le lacrime che un'esistenza fatta di infelicità, odio e solitudine ha generato. Non esiste niente di più falso della felicità che il potere porta con sé. Forse sarebbe stato meglio se Kuhrah avesse avvelenato me, al posto di Gaverna. Lei e Mothalthin sarebbero stati sovrani amati, capaci e giusti. Aveva ragione a credere che non fossi fatto per governare, aveva ragione a detestare il figlio irriverente ed irragionevole. Aveva ragione su tutto. Ed io ero nel torto marcio. Ed in questo momento come mai prima d'ora ho desiderato morire nel più vile dei modi, perchè non merito gli onori di una departita migliore. »
Tacque, con la voce spezzata dal pianto, e rivolse lo sguardo al di là della balconata, pericolosamente sporgendosi oltre il parapetto per scrutare cosa gestasse sotto di esso. Doveva respirare, ma non gli era mai parso così difficile; l'aria si bloccava a metà strada, ammassandosi come una tempesta carica di pioggia che si riversava dagli occhi. Arrossati, vili e gonfi occhi che avrebbe volentieri cavato dalle orbite per non vedere più un mondo senza Gaverna.
Vissia lo scorse tremare sotto la leggera camicia bianca, frustata dal vento. Seppe, però, che quel tremore non era stato causato dal freddo. Le emozioni stavano attraversando l'inesperto corpo di Maitreya e quasi le udiva, entrare ed uscire da ogni parte mangiandogli la carne, afferrandogli lembi di pelle e strappandoli. Velenose, impietose e laceranti, non gli davano tregua, le aveva liberate dopo così tanto tempo che dovevano esaurire la forza guadagnata durante tutti gli anni rimaste nell'ombra. Dovevano vendicarsi dell'angolo in cui le aveva rilegate.
Maitreya si sporse ancora di più, attratto dal suono pacificatore della confusione cittadina, e la ragazza credette che fosse prossimo a lasciarsi semplicemente scivolare verso quella visione; abbandonando ogni renitenza che lo legasse alla vita, abbracciando la calma della fine. Aveva provato quelle medesime sensazioni più volte di quante ne volesse ammettere. Le capiva. Le temeva. Perchè sapeva che una persona infestata da certi incubi e rimorsi non sa volere altro che la morte. Mosse un passo in avanti, e poi un altro ancora, fino a raggiungerlo. Strinse la mano attorno al suo braccio e lo tirò a sé, discostandolo dal panorama che lo stava stordendo, attirandolo ad esso.
« Non so nemmeno perchè ti abbia detto quelle cose ed ora mi faccia vedere in queste umilianti condizioni proprio da te. » lo disse con disgusto, un disgusto rivolto esclusivamente a se stesso, e si ritrasse dal tocco di Vissia, rientrando nell'atmosfera opprimente della stanza. Era come se desiderasse abbandonarsi all'allettante idea di riversare su di lei i propri dissidi, ma al contempo non la volesse insudiciare del dolore che si era procurato con le sue stesse mani.
« Credo sia più facile aprirsi con una sconosciuta. Ed hai scelto proprio me perchè... » Vissia si guardò intorno, deviando sistematicamente i pozzi neri che erano diventate le pupille di Maitreya « non vedo molte altre possibilità. » terminò, scacciando vistosamente l'ondata di agitazione che aveva iniziato a stritolarle i nervi. Non aveva detto niente di speciale, eppure quelle erano le prime vere parole che rivolgeva al sovrano. Non c'erano state altre occasioni per parlarsi né lei le aveva cercate. La funesta figura di quell'uomo non generava certo il desiderio di volercisi avvicinare, ma gran parte dell'immagine che Vissia si era ricamata in testa riguardo lui, era appena stata sfilacciata. Non era l'imperturbabile e spietato individuo che si era dimostrato, non solo perlomeno. C'era qualcosa di assai più profondo dietro quella maschera di egoistica superiorità che si ostinava ad indossare, ed era così vicina a strappargliela di dosso, così vicina a costringere Maitreya a rivelarsi con tutte le sue crepe e cicatrici, che ne ebbe paura. Non poteva prevedere come avrebbe reagito, allo scoperto. Senza neppure un velo a riparare la sua carcassa tramortita.
« E tu? Cos'hai da dirmi? Non sembri affatto una persona felice, proprio come me. Ed io sono uno sconosciuto. Se devo farmi a pezzi, voglio che lo faccia anche tu. » fece un cenno con la mano, come a rassicurarla che quelle confessioni non sarebbero mai uscite dalle quattro mura in cui erano state pronunciate.
Il viso di Vissia divenne paonazzo, più per la sorpresa che non per l'imbarazzo, e le sue corde vocali si fecero nuovamente aride di parole. Se avesse pensato a Maitreya, prima di quel momento, come a una persona in grado di leggere il prossimo, si sarebbe risa in faccia da sola. Eppure quelle iridi ruvide, color corteccia d'abete, la stavano studiando nell'animo. Si sentiva nuda sotto al loro tocco, una bambina inesperta che gioca a fare l'adulta vissuta, con turbamenti per nulla paragonabili ai suoi.
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Le Cronache di Meknara - Sangue di Drago
Fantasia- IN REVISIONE - I Draghi si sono ormai estinti e con essi la loro Dinastia, di cui Veer e suo figlio Arian sono gli unici eredi ancora in vita. Pensavano di aver trovato rifugio da se stessi, dalla propria identità, una volta dispersi nel globo ter...