15.3 Cambiamenti

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La porta cigolò nella penombra, emanando un lento ed acuto lamento che presto sgusciò sulla pietra delle pareti come un pipistrello nell'oscurità

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La porta cigolò nella penombra, emanando un lento ed acuto lamento che presto sgusciò sulla pietra delle pareti come un pipistrello nell'oscurità. Le torce grondavano lacrime di bitume, la loro luce era l'unica presente a rischiarare il nero ostinato delle prigioni.
Serhatan sussultò a quel rumore, gemette e cercò di divincolarsi dalle catene, le quali pendevano lugubri dal soffitto e gli facevano dolere le braccia tese, incastrate nella loro morsa. Non sapeva mai con certezza quando Maitreya veniva a fargli visita, ormai aveva smarrito la concezione del tempo, non esisteva l'alternanza dei giorni là sotto. Una notte perenne, costellata di bagliori fumosi pronti a svanire, era tutto quanto potesse avere per rimanere attaccato alla realtà e non farsi invadere dalla follia. Poi c'era il dolore, a cui si era gradualmente, e forzatamente, abituato. Non poteva vedere con chiarezza il martirio avuto luogo sul suo corpo, forse era anche meglio così, ma percepiva i tagli scavati nella sua schiena, un ricamo di squarci e solchi; percepiva la carne esposta all'aria, al posto delle dita, e talvolta si dimenticava persino cosa ci fosse stato prima di quel vuoto; percepiva le scottature, soprattutto quella sul volto, bruciargli nonostante niente le stesse toccando; percepiva le gengive lacerate dai denti tolti con la forza e le labbra spezzarsi per la mancanza di acqua. Sarebbe stato trasformato in un oggetto di sadico piacere, lo aveva saputo fin da principio, ma mai avrebbe creduto fino a tal punto, si era illuso che la sua posizione gli avrebbe concesso uno scudo d'incolumità. Le voci sulla innata predisposizione del sovrano dei Fenrir alla tortura non gli erano mai sembrate più veritiere.
Una figura si intromise nella stanza in cui era stato relegato, appeso alla stregua di un animale cacciato, e quando Serhatan riconobbe la chioma di Maitreya un gemito gli sfuggì dalla bocca incrostata di sangue. Gli sembrava non fossero passate nemmeno un paio d'ore dall'ultima sua visita e non era pronto a sopportarne un'altra. Fu sul punto di supplicarlo, chiedergli benevolenza almeno per quella volta, ma la sua nenia venne interrotta sul nascere dall'entrata di un'altra figura, così simile a Maitreya da fargli credere di avere le allucinazioni. Erano soltanto i capelli più lunghi a mettergli dei dubbi sulla vista doppia, ma con il rosso liquido vitale a ribollirgli tra i bulbi, non era più sicuro di cosa vedesse o meno.
I due individui si appoggiarono al tavolo in legno su cui sostava, in bella vista, il repertorio di oggetti causa dei suoi tormenti e si misero a guardarlo attentamente.
« L'hai ridotto male » commentò Mothalthin incolore, posando la vista su ogni porzione di pelle anche in minima parte rovinata dalla mano del fratello « ma non ti biasimo, pugnalare Asper non è stata una grande idea. Non sei d'accordo anche tu? »
Serhatan non attese ad annuire, speranzoso di fare una buona impressione allo sconosciuto e magari convincerlo a far desistere Maitreya dal torturarlo ancora.

« Se ti dico seduto fai come i cani e ti siedi? Tira fuori la lingua e scodinzola, già che ci sei. Tanto la dignità te l'ho tolta insieme alle palle » lo redarguì il sovrano, già consapevole delle illusorie farneticazioni covate dalla sua vittima nei confronti di Mothalthin. Era un povero illuso a pensare di avere a che fare con qualcuno di diverso da lui; nonostante suo fratello fosse nettamente più buono, non si poteva dire non amasse la giustizia in tutte le sue forme, vendetta compresa.
« È un pezzo di pane. »
« L'ho spezzato come un pezzo di pane » ribattè Maitreya, mostrando un sorriso beffardo e compiaciuto, lo stesso utilizzato mentre si allietava ad infliggere dolore a Serhatan, il quale rabbrividì vistosamente.
« Ci sei andato piano con me, devo dedurre » rise amaramente Mothalthin, ritrovandosi perfettamente nelle condizioni del comandante delle Viverne: denudato del titolo di uomo, sposato con freddo e umiliazione, un tutt'uno con la sofferenza e la paura. Eppure, non riusciva a provare compassione per quel ragazzo troppo ingenuo da essersi infilato nella tana del lupo. Aveva ferito Asper e l'aveva fatto infidamente, persino contaminando la lama con un veleno dagli effetti non immediati, al quale quel verme bastardo di Mihir era riuscito a porre rimedio, più per timore della sua vita che non certo per dovere. Nutriva solo rabbia e risentimento verso di lui, la bontà l'aveva lasciata fuori dalla porta per quell'incontro, ritrovando il se stesso prima della conversione.
« In realtà no » Maitreya si girò verso il fratello, lo guardò negli occhi e riaprì il sorriso « eri soltanto più forte » gli batté una mano sulla spalla, quasi a complimentarsi del suo attaccamento alla vita, ed infine si alzò per avvicinarsi a Serhatan. Il prigioniero tentò di ritrarsi dall'alito denso di morte del sovrano ma la mano di quest'ultimo, stretta attorno al collo, lo riportò nella posizione iniziale; abbassò dunque gli occhi colto dal terrore del dopo.
« Che cosa ne vuoi fare di lui? » chiese Mothalthin, incrociando le braccia al petto e sistemandosi i polsini del farsetto « Ucciderlo? Ridarlo a Ferni? Tenerlo vivo fino alla fine della guerra e usarlo come merce di scambio? »
« Sacrificarlo durante la Sèkdora » rispose Maitreya, senza distogliere l'attenzione dai lineamenti sudici e tremanti di Serhatan « insieme a Mihir e agli altri traditori. Ma per loro due ci vuole qualcosa di più speciale del semplice rogo. » Uno scintillio ferino brillò tra le venature ambrate delle sue iridi scure, facendolo rassomigliare ad un predatore a digiuno, appena entrato in collisione con la propria preda.
Erano giorni che pensava alla Sekdora e alle due settimane di distanza interposte tra lui ed il sapore metallico dei sacrifici sulla bocca e più i giorni avanzavano più sentiva crescere in lui un profondo desiderio di renderla una festa degna di nota. La celebrazione di fine stagione dei Fenrir, alla quale tutto il popolo era invitato a partecipare perché dimostrazione di forza nei confronti di quanti tramassero contro l'Ostro, non aveva mai avuto un profumo tanto invitante. Era l'occasione adatta per infuocare gli animi dei guerrieri ed inneggiare alla battaglia in campo aperto, senza più mediare tra alleanze e strategie, vanamente tentando di non far trapelare informazioni. Tutti, dai nobili al popolino, sapevano cosa si stava addensando sopra la loro terra, era inutile continuare a sperare di tenerli all'oscuro fino all'inizio vero e proprio degli scontri. Bisognava sfruttare questa loro consapevolezza e farli liberare dell'ira alla quale si attaccavano da mesi, per colpa della fame e degli stenti, a discapito delle Viverne. Non si trattava solo di dirigere un esercito, ma di tenere da parte le milizie migliori per i tempi peggiori, mettendo avanti i volontari e poi, solo poi i soldati veri e propri. Come negli scacchi, i pedoni si muovevano per primi. Quella creata con Ferni era una scacchiera a tutti gli effetti e Maitreya era il bianco, doveva muovere per primo. Un vantaggio? Non ne era sicuro, eppure avrebbe potuto decidere lui il primo attacco verso chi si sarebbe mosso. Il Nord era suo, dei Turul, isolati dal resto delle terre grazie alle Manticore e quindi innocui, delle Manticore stesse, sue alleate, e delle Centicore, presto sue alleate. Kohor stava mobilitando delle milizie dalla Penombra per costringerle a piegarsi a lui e quindi a Ferni, ma i risultati non parevano mostrarsi. Si diceva le Centicore fossero scomparse e si mostrassero soltanto per attaccare ed uccidere gli uomini del Rekkar dei Cani Neri. Non avevano ancora subito perdite tra i loro uomini, almeno questo era quanto gli fosse stato riferito dai suoi fedeli. Poteva pertanto sperare esse non si schierassero contro di lui, se si fosse posto più garbatamente di Kohor. Richiesta assai complicata seppur necessaria, con le Centicore dalla sua parte ed i Turul isolati, sarebbe stata una guerra quasi bilanciata. Rok e Grifoni rimanevano uno scoglio, ma i primi si trovavano abbastanza distanti da metterci settimane di marcia prima di raggiungerlo ed i secondi avrebbero dovuto fronteggiare innanzitutto le Centicore o, se fosse andata male, le Manticore. I suoi veri obiettivi vertevano su Viverne e Cani Neri, erano loro i capisaldi dell'alleanza.
« Non puoi uccidere Mihir, ci serve ancora » protestò Mothalthin, prendendo il fratello per una spalla e voltandolo verso di sé « e Serhatan potrebbe essere ottima merce di scambio, nel caso fosse necessario. »
« Non lo capisci, vero? A Ferni non importa niente di lui. Perché non ha nemmeno tentato di salvarlo in tutto questo tempo? Perché ha mandato lui e non un altro a pugnalare Asper? Non lo ritiene importante a sufficienza per sprecare energie a suo favore. Uccidendolo, invece, porremmo Autybe nell'ottica di tradirlo. »
« E per quale motivo dovrebbe tradire suo cugino se siamo stati noi ad ucciderlo? »
« Perché è una donna ferita, la Raskadra oc Thos, già accecata dall'odio verso il suo sovrano, ogni occasione è buona per vendicarsi. Non baderà ai carnefici materiali del suo amante, non finché Ferni avrà respiro in corpo, la colpa primigenia della morte di Serhatan la attribuisce a lui. Io l'ho guardata negli occhi, ho visto l'odio bruciarle la vista. » Maitreya finì di parlare e sogghignò soddisfatto dei propri ragionamenti: non aveva dubbi su come Autybe si sarebbe comportata, era una garanzia la sua impulsività innata e l'amore sconfinatamente sordo per il fratello. E averla come alleata all'interno di Igniphetra, avrebbe dato loro la certezza di conoscere le mosse del Rekkar bastardo in anticipo abbastanza da rivoltargliele contro. Maitreya lo sapeva, in cuor suo, di non avere molte speranze in uno scontro a viso aperto, due o tre Dinastie non avrebbero retto la potenza di cinque nemmeno se tra quelle due si spalleggiavano Fenrir, Manticore e l'ultimo dei Draghi. Doveva agire con l'astuzia e solo poi con la forza bruta, necessitava di scavarsi tutt'attorno un fossato sicuro entro il quale ripararsi in caso di problemi. Non voleva morire, come Dhoveerdhan poteva pensare, non prima di aver distrutto Ferni.
« E Mihir? Che cosa ne vuoi fare di lui? » chiese Mothalthin, ancora perplesso riguardo le sorti del Sapiente, ma in ogni caso ammirato per l'attenzione di Maitreya ai dettagli. Sarebbero stati proprio quegli stessi a fare la differenza.
« Vedremo di esaurire la sua utilità in queste settimane, due giorni prima della Sèkdora lo imprigioneremo per alto tradimento e lo metteremo al corrente della sua copertura saltata. Gli taglieremo la lingua, non sia mai che parli troppo pure in punto di morte e poi, sull'altare, sarai tu ad ucciderlo. È giusto che sia così » spiegò, mai distogliendo la vista da Mothalthin, rimasto sbigottito dalla fine del suo discorso. Era evidente dal suo atteggiamento che non si aspettava tanta organizzazione. Il sovrano si era sempre comportato come una valanga distruttiva ed iraconda, la quale sommerge tutto e tutti indifferentemente, senza badare alle conseguenze. Invece, tra le mura sudice delle prigioni, Maitreya si stava dimostrando più maturo ed assennato di quanto il fratello maggiore avesse auspicato. La vena di sadismo e cattiveria rimaneva pulsante sul collo, eppure la stava controllando egregiamente.
« Non posso ucciderlo, non sono un assassino » obiettò infine, ritraendosi dalla mano di Maitreya e riacquistando un velo di lucidità. Vedere Serhatan, inspirare il piacere della vendetta ed assaporare il gusto del sangue altrui lo avevano stordito momentaneamente. Le parole del re erano poi servite da contorno al panorama invitante della crudeltà gratuita e spietata, facendolo entrare nel suo mondo. Adesso si stava risvegliando da quell'intorpidimento, anche se rimaneva uno strato di fascino in tutto ciò.
« Siamo nati assassini, non puoi rinnegare la tua vera natura. Mihir ti ha fatto soffrire, ti ha fatto penare, ti ha mentito ed usato. Perché meriterebbe la tua pietà? »
« Non ti sto chiedendo di risparmiarlo, ma non voglio essere io ad ucciderlo »
« Se non lo farai tu, lo lascerò vivere. È un tuo diritto vendicarti e quell'uomo sarà la tua vendetta o la tua condanna, potrai rimanere a guardarlo vivere in pace, sapendo cosa ci ha fatto, oppure prendere in mano una spada e tagliargli la gola, bevendo la sua sofferenza come una fonte di vita eterna. A te la scelta, hai tempo per rifletterci » concluse, allontanandosi di qualche passo per guardare meglio in volto Mothalthin e la sua reazione. Non voleva costringerlo, né tanto meno avrebbe lasciato Mihir vivere se avesse deciso di non ammazzarlo, covava semplicemente il desiderio di tirare fuori la cattiveria dalla bontà estrema del suo santo fratello. Sapeva ci fosse, nascosta da qualche parte in quell'ammasso di generosità e modestia, doveva soltanto trovarla e per farlo, quale modo migliore del provocarlo? Dopotutto, era un Fenrir anche Mothalthin, il primogenito di Kuhrah, un pazzo sanguinario dalla mente pregna di perfidia. Non poteva essere diverso dal padre, non poteva essere così diametralmente opposto. Persino lui, nonostante l'odio cieco nei confronti del defunto Rekkar dei Fenrir, era costretto ad ammettere di assomigliargli fin troppo.
Mothalthin rivolse un ultimo sguardo a Serhatan e a Maitreya, poi si mosse superandolo ed afferrando la maniglia della porta per uscire. L'aria si stava facendo soffocante ed i pensieri iniziavano ad aggrovigliarsi su se stessi, in un labirinto di voglie e privazioni. Avrebbe voluto far del male a Mihir, lo avrebbe voluto così tanto, al contempo, però, non voleva contravvenire alla sua fedeltà verso la mediazione ed il colloquio. La morte non era la soluzione di tutti i problemi, o forse sì? Avrebbe davvero sopportato di guardare quel verme aggirarsi sano e salvo per Thora Koshra, continuando a farsi beffe di Maitreya e soprattutto di lui? Avrebbe davvero sopportato di fingere non gli importasse della vita agiata del Sapiente, quando in verità le viscere gli si corrodevano nel disprezzo? Avrebbe davvero saputo mantenere le vesti del buono per il resto dei suoi giorni, nonostante tutto?
« Deciderò io come ucciderlo » bisbigliò e Maitreya annuì, sorridendo ed alzando le mani in segno di resa. Era un affare solo suo, quello di Mihir.
Spalancò l'imposta e la richiuse alle spalle con un cipiglio degno del suo conflitto interiore. Guardò il corridoio avvolto dall'oscurità e s'incamminò verso le scale per uscire di lì. Aveva bisogno di respirare il freddo dell'Ostro e comprendere se si addicesse al suo animo, perché era al freddo che si stava votando con quella decisione irrevocabile. Salì il primo gradino ed una voce ben conosciuta riecheggiò tra la pietra, scheggiandogli il cuore e facendolo dubitare della sua scelta.

È nella luce il tuo destino, Figlio del Sole.

È nella luce il tuo destino, Figlio del Sole

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Le Cronache di Meknara - Sangue di DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora