L'invito ~ 1*

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Maggio 1929

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Maggio 1929

Nelle due settimane successive terminai il dipinto che mi era stato commissionato. Il secondo giorno di lavoro ero riuscita a trovare un gruppo di soggetti adatto a rappresentare al meglio una giornata tipica al Cotton Bar: si trattava di sei uomini, la maggior parte dei quali era seduto in maniera tale da darmi le spalle. Stavano poggiati in maniera scomposta sugli sgabelli di legno, con le loro divise da lavoro ancora sporche di terra e fango.

Mi avevano attratta perché erano proprio incuranti di me e degli altri, dell'aspetto che avevano e del loro bisogno di indossare abiti puliti e consoni a un'uscita in città. Quelli erano loro: stanchi dopo una dura giornata di lavoro, veri nelle loro uniformi da signori che sanno cosa vuole dire spaccarsi la schiena e sporcarsi le mani, ma desiderosi solo di passare del tempo rilassati, a chiacchierare e bere mentre i loro cappelli giacevano sui banconi perché non più necessari a coprirli dal sole cocente di maggio.

L'idea e il risultato finale mi soddisfavano molto, ma soprattutto amavo il colore che avevo scelto: quello del bourbon, che mi dava l'idea di aver scattato una fotografia del quotidiano. Oltretutto lo legavo al fatto che, se non ci fosse stato il proibizionismo, probabilmente quello sarebbe stato il liquore domandato più di frequente. I fiumi dell'alcol li avrebbero inebriati e mi venne naturale creare delle onde più scure sullo sfondo, come a dare l'immagine di bourbon che scorre nel locale.

Era quello il colore della scena e risi al pensiero che non riuscivo proprio a togliermi l'abitudine di collegare a qualcosa una data tinta, la quale non per forza doveva corrispondere alla realtà. Si trattava di una mania che avevo sin da bambina e che riversavo con gioia mentre dipingevo, perché più che l'atto del dipingere in sé, mi attraevano i colori e le mille sfumature che potevano assumere.

Pensare al colore che un dato oggetto mi richiamava e mescolare tinte su tinte, fino a raggiungere quella tonalità che avevo in mente, era un passatempo del quale non mi sarei mai annoiata.

Il fatto che in quelle giornate nessuno avesse prestato attenzione a me, mi fece lavorare senza intoppi e riuscii a terminare il tutto in breve tempo.

Più e più volte, però, mi ero ritrovata a osservare la folla alla ricerca del ragazzo dai profondi occhi azzurri. Di lui non vi era alcuna traccia e ciò mi dispiacque molto, ma forse fu meglio così: sarebbe potuto essere causa di distrazioni.

Trascorsi alcuni giorni, i Wilson videro l'opera ultimata. Ne furono entusiasti e l'appesero alla parete centrale della sala. Mi rivelarono che molto spesso le persone si fermavano a guardarlo e si complimentavano per il bel lavoro fatto. Non potei non gioire di quelle affermazioni; finalmente avevo avuto la possibilità di far conoscere la mia arte.

Terminata la commissione, però, rimasi numerosi giorni a casa senza sapere cosa fare della mia vita. Distesa sul letto, molte volte mi ero trovata a pensare al mio futuro, alle mie passioni, ma soprattutto a quel ragazzo, il cui volto ormai mi era divenuto così familiare a suon di guardarlo tutte le sere raffigurato nel dipinto. Nessuno mi aveva mai colpita così tanto e con un semplice sguardo era stato in grado di entrarmi nella mente e occupare la maggior parte dei miei pensieri.

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