Capitolo 19

3.1K 152 31
                                    

ARIANA'S POV
"Basta solo aspettare" era quello che mi ripetevo nella testa.
Non sapevo che ore erano, non sapevo nemmeno se era notte fonda o pomeriggio, però io avevo contato ogni secondo passato dal momento in cui quel mattone si era spostato.
Avevo deciso di addormentarmi e, appena sveglia, mi ero ritrovata distesa in quei cartoni con un vassoio di metallo davanti alla mia faccia dove erano poggiati una bottiglietta d'acqua e un toast; lo mangiai senza esitare e bevvi tutta l'acqua.
Cercai di mettermi in piedi, ma le gambe mi tremavano, lo stupro di alcune ore prima, l'essere stata picchiata per giorni e la malnutrizione a cui ero stata sottoposta da quando ero entrata in quell'inferno mi impedivano di farmi stare in piedi senza sforzo, barcollavo e avevo bisogno di sostenermi a quella ormai familiare vecchia sedia di legno per non cadere.
Riorganizzai nella mia mente tutto ciò che avevo pianificato prima di addormentarmi, lentamente barcollai verso il mattone, lo spostai, presi quella sottospecie di pugnale e lo nascosi nella tasca anteriore della felpa enorme che ormai non mi cambiavo da giorni, settimane forse.
Bramavo una doccia calda, vestiti puliti, una serata sotto il piumone accoccolata tra le braccia di Justin a guardare qualche film a cui alla fine non avrei dato alcuna importanza; quanto avrei voluto poter vedere il suo viso ancora, dirgli che mi ero innamorata di lui follemente, baciarlo per un'ultima volta.  Se non fossi uscita viva da quel posto? Tutte le cose che non avevo potuto fare, tutto quello che non avevo potuto dire alle persone a cui tenevo...come avrebbero potuto saperle?
Mi sedetti su quella sedia, con le gambe doloranti, senza forze, a fissare di nuovo quella vecchia porta rossa per la milionesima volta da quando ero stata rapita, e aspettai, era l'unica cosa che potevo fare.
Quando furono passate forse delle ore sentii dei passi pesanti avvicinarsi alla porta della stanza, il cuore cominciò a battermi più velocemente del normale, sentii l'adrenalina cominciare a scorrermi nelle vene.
La porta si spalancò, io spostai lo sguardo nella parte del pavimento che era stata macchiata dalle gocce del mio sangue, ancora fresco in alcuni punti, mi rifiutavo di guardarlo in faccia finché non avrebbe parlato, e così fece.

<bambolina...come stai?> mi chiese con tono disgustosamente dolce, mentre poggiava quella solita piccola asta di legno nello stipite della porta.

Io alzai lo sguardo dal suolo, ruotando leggermente il viso verso il suo corpo fermo ad un metro da me, gli sorrisi falsamente.

<oh...io?...sto benissimo grazie...> il rancore che trapelava dal mio tono estremamente pacato gli fece cambiare nettamente espressione.

Corrugò la fronte avvicinandosi fino ad arrivare ad un passo da me.
Mi alzai velocemente facendo cadere la sedia dietro di me e indietreggiai assicurandomi che ci fosse una certa distanza tra me e quello che ormai era diventato il mio incubo; lui mi fissava freddamente, le pupille dilatate e la mascella serrata.

<che ne dici se ci divertiamo un altro po'? Bieber non verrà mai a saperlo, a meno che tu non esca viva da questo posto> mi sorrise malamente prendendomi per i fianchi.

Mi liberai velocemente dalle sue braccia e cercai di allontanarmi, ma inciampai sulla gamba destra della sedia caduta pochi attimi prima, così lui ne approfittò per prendermi e bloccarmi tra le sue braccia poggiando la mia schiena contro il suo petto; cercai di liberarmi quasi inutilmente mentre piangevo a dirotto e gli urlavo disperatamente di lasciami, di non farmi niente. Riuscii a muovere la mano destra mentre lui mi prendeva di peso per portarmi nello stesso punto in cui mi aveva violentata per legarmi, afferrai il coltello nella mia tasca e serrai gli occhi quando con un urlo straziante gli piantai quel coltello sulla gamba destra facendo urlare lui a sua volta per il dolore, lo estrassi, e lo infilai nuovamente nella sua gamba leggermente più in basso.
Mi lasciò immediatamente per stringere le ferite cercando di evitare di dissanguarsi.

<Stupida dannata puttana!> mi urlò contro appoggiandosi al muro.

<Mi fai schifo! Tu, dannato mostro che hai osato legarmi e portarmi via quella che sarebbe dovuta essere una delle più belle esperienze della mia vita! Adesso chi é che ha il coltello dalla parte del manico?> gli urlai contro, tra le lacrime, svuotando i polmoni.

Lui, sentendo quelle parole, si scostò dal muro e venne nella mia direzione velocemente, io raccolsi tutto il coraggio che avevo e, quando cercò di prendermi tra le sue braccia di nuovo, lo pugnalai due volte nello stomaco, facendolo urlare disperatamente e imprecare mentre si accasciava al suolo.
Mi spostai velocemente da lui, lasciandolo cadere, non ebbi il coraggio di guardare le mie mani o la mia felpa o il coltello che avevo in mano, sapevo fossi ricoperta di sangue; scattai verso la porta ignorando il dolore lancinante proveniente da ogni parte del mio corpo, tolsi il paletto di legno, varcai la soglia della porta e la chiusi violentemente dietro di me.
Rimasi per qualche secondo a fissare quella superficie rossa dall'esterno, quella porta che era impossibile aprire dall'interno; ero fuori, avevo chiuso quel mostro nella sua stessa trappola e lui non aveva via d'uscita, lo sentivo urlare dal dolore, imprecarmi contro e supplicarmi di aiutarlo e di tornare.
Gettai il pezzo di legno in terra, lo guardai, la mia mano vi era impressa con il sangue di qualcuno che io avevo accoltellato; lasciai i sensi di colpa in una parte remota del mio cervello, non avevo tempo per provare del rimorso, dovevo trovare l'uscita di quel posto, capire dove mi trovavo, e cercare qualcuno che mi aiutasse.
Corsi fino alla fine del corridoio in cui mi trovavo, illuminato solo da qualche lampadina, trovai una serie di rampe di scale che mi portavano al piano superiore, le salii, con il fiatone e la gabbia toracica che andava a fuoco.
Dovetti salire quattro rampe per poter arrivare in un corridoio pieno di stanze che all'apparenza sembravano vecchi archivi abbandonati pieni di documenti e scatoloni sparpagliati sui pavimenti e per il corridoio; vidi un enorme portone di legno e ferro ad un metro da me, affrettai il passo, e quando vi arrivai forzai la serratura con il coltello gocciolante di sangue che avevo tra le mani, anche esse, piene di sangue, cercai di ignorarlo e quando sentii la vecchia serratura scattare tirai verso di me quell'enorme e pesante pezzo di legno e ferro arrugginito e riuscii ad aprirlo abbastanza per permettere al mio corpo magro di passarvici.
Uscii, sentendomi quasi libera e accecandomi con i potenti raggi di sole che splendevano nel giardino che mi divideva dalle case dall'altra parte della strada. Scesi le gradinate di cemento e corsi verso il centro del giardino, girandomi poi e riconoscendo quell'edificio dove ero stata rinchiusa come il vecchio archivio abbandonato della città; disgustata da quel luogo mi girai subito e corsi con i capelli al vento verso il cancello arrugginito che dovevo passare prima di potermi considerare almeno un po' salva da quell'incubo. Vi arrivai davanti, e dovetti forzarlo proprio come con il portone, ma l'ansia mi divorava dentro, il coltello mi scivolava dalle mani, così dovetti asciugarmi le mani dal sangue sulla felpa ormai diventata rossa, ripresi il coltello e armeggiai con la serratura di metallo finché non la sentii scattare; tirai il cancello verso di me e corsi fuori senza girarmi indietro.
Il vecchio archivio si trovava praticamente nel centro della città, quindi, ero circondata da persone che, allarmate dalla vista di una ragazza piena di sangue e con un coltello in mano che correva, cercavano di fermarmi invano.
Sapevo che la centrale di polizia si trovava a pochi isolati, così, sotto gli sguardi indagatori e preoccupati di tutti i passanti, corsi, scalza, con i piedi che bruciavano sull'asfalto, cercando di trovare un posto in cui sentirmi pienamente al sicuro.
Inseguii senza sosta il desiderio di sopravvivere a tutto quello che era successo e riuscii ad arrivare alla stazione di polizia ignorando il dolore lancinante proveniente da ogni muscolo del mio corpo.
I poliziotti appostati all'esterno mi guardarono allarmati cercando di fermarmi, ma io scappai e mi diressi al centro della stazione, nella parte dei crimini più gravi, dove sapevo lavorasse un giovane commissario appena promosso che, avevo visto al telegiornale, era riuscito a risolvere dei casi estremamente difficili e importanti. Sentivo uomini e donne all'interno del distretto urlarmi di fermarmi per cercare di aiutarmi, ma mi fermai solo quando, spalancata la porta dell'ufficio del commissario, rimasi lì in piedi, davanti allo sguardo stupito e curioso del ragazzo di 23 anni che dirigeva tutto quel posto, con la felpa ancora gocciolante di sangue, il coltello stretto nella mano tanto che avevo le nocche bianche, il corpo stremato e dolorante, i vestiti completamente neri dallo sporco, scalza e le lacrime che mi scorrevano su tutto il viso.
Caddi in ginocchio sotto lo sguardo di tutti i poliziotti e le poliziotte, in tutto l'edificio regnava il silenzio più assoluto; il giovane uomo moro dagli occhi verdi si alzò velocemente dalla sedia dietro alla scrivania e mi venne incontro piegandosi alla mia altezza, vestito con dei jeans neri, una camicia bianca con le maniche arrotolate e degli stivaletti chelsea neri.

<Cosa è successo? Come ti chiami?> mi chiese con voce roca e profonda tenendo una mano poggiata sotto il mio mento per costringermi a guardarlo negli occhi mentre piangevo in silenzio.

Tutti i poliziotti fissavano quella scena incuriositi.
Cominciai a singhiozzare e chiusi gli occhi sperando di essere al sicuro.

<...a-aiutami> sussurrai riaprendo i miei occhi neri e incatenandoli con i suoi verdi.

My brother's bestfriend //Justin Bieber//Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora