16. lettere

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Ero appena tornata a casa dal Blu Bar, dove avevo lavorato l'intera mattina.

Quel giorno era un giorno speciale.

Come ogni anno, di consuetudine, avevo comprato una torta, la solita: panna, crema e fragole. Come piace a lei.

Avevo preso poi due pacchi di candeline bianche erano venti per scatoletta. Ne avrei usate trentotto.

Non c'era ragione per cucinare del cibo, mi si era chiuso lo stomaco e la torta era l'unica cosa che mi sarei imposta di mangiare. Una fetta sarei riuscita a mandarla giù.

Andai in camera mia, presi una busta, un foglio ed una penna verde. Dallo scatolone dei ricordi, che avevo riposto nell'armadio, estrassi il carillon portagioie.

Uno scrigno grande, con due ripiani. Il primo piano era dedicato alla pedina danzante, il secondo era un unico cassetto con dentro molte lettere ripiegate.

Quel carillon era rimasto la cosa più preziosa che avessi.
La piccola ballerina trasparente era solita muoversi sopra un specchio di ghiaccio danzando sulle note di una nostalgica canzone.

Mi era stato regalato quando ancora ero piccola, dopo essermi aggiudicata il primo posto ad una gara di pattinaggio mia madre mi aveva fatto dono questo scrigno nero.

Tornai in cucina e sulla lettera iniziai a scrivere le parole taciute dall'anno precendente.

Lasciai dello spazio sia da sopra che da sotto, solo qualche centimetro.
Scrissi con una calligrafia elegante ma decisa.

Quando finì mi allontanai il foglio dal viso per osservarlo. La misura era giusta, non avevo scritto nè troppo nè troppo poco. Rilessi le verdi lettere. Perfetto, nessun sentimento traspariva tra quelle righe.
La piegai e la misi in una busta. Su ogni busta vi era una frase, anche su quella ne avrei messa una.

«Alla mia prima grande perdita. Grazie, mi hai insegnato come scappare, perfino dall'amore.»

Strane quelle parole, sembravano colme di tanto odio. Eppure era tutt'altro. Un sentimento a cui non riuscivo dar nome.

Buffo come l'unica traccia di me era scritta sulla busta stessa, la lettera conteneva solo un breve racconto di sbagli commessi durante l'anno.

Chiusi la busta ed aprì il carillon. Mi rattristii non sentendolo suonare, aveva smesso due anni prima.

«Charlotte basta. Hai pianto abbastanza e sai quanto mi dia fastidio vederti piagnucolare inutilmente.» disse Simon entrando in camera nostra.

Tra le mie mani la ballerina del portagioie slittava sullo specchio e la musica risunava tra le pareti della stanza.

«Simon, vattene. Ti ascolti quando parli? Sei incredibile.» feci esasperata.

«Sei tu che non senti me. Non lo ripeterò un'altra volta: chiudi quella scatola e smettila.»

Ero scioccata.
Presi un respiro profondo e ricominciai a parlare.
«Nessuno ti obbliga a sentirmi piangere. Vattene, vattene subito Simon.» cercai stremata di cacciarlo dalla stanza.

Lui si infuriò di più. E lì capì, quando si mosse in avanti traballante, che aveva bevuto.
I suoi occhi si fecero duri ed ebbi paura, temevo potesse farmi del male perché preso da quella sua rabbia immotivata.

Indietreggiai ma ciò non lo fermò dallo strapparmi il carillon tra le mani.

Fu un attimo, buttò a terra il mio scrigno e sentì la melodia cessare di risuonare.

Misi le candele sulla torta e con l'accendino le illuminai una ad una.

«Tanti auguri a te
Tanti auguri a te
Tanti auguri, mamma,
Tanti auguri a te.» soffiai su tutte le candele.

Ti faccio i miei auguri, madre, che un giorno tu possa leggere i miei regali, fino ad allora li terrò chiusi nel mio cuore, lo scrigno che ha smesso di suonare.

Finita di mangiare la fetta di torta fragole e panna, mi misi a lavare i piatti sporchi.

Il campanello di casa iniziò a suonare giusto quando avevo finito di sciacquare l'ultimo bicchiere.
Mi pulì le mani ed andai ad aprire la porta con un mezzo sospetto su chi ci fosse dietro.

«Perché sei qui zucchero?» inclinai la testa di lato.

Lui sorrise guardandomi con quei suoi occhi blu metallici. Si era fatto un mese dall'ultima volta che l'avevo visto.

«Finchè sei a Boston, perché dovrei starti lontano? Anche io vado e vengo quando e come voglio, non puoi decidere sempre tu.» rispose sfrontato.

«Dai vieni, ti porto in un posto.» mi prese per un polso tirandomi a sé.

«Piano piano, non mi sembra di aver accettato.» lo bloccai posandogli una mano sul braccio.

«Però a me sembra tu abbia ancora in sospeso un'uscita con il sottoscritto. Perchè non sfruttare questo giorno?»

Sbuffai lasciandomi però sfuggire un sorriso e facendo così allargare il suo.

«Dove andiamo?»

«Piccola, questa è una sorpresa.» mi fece l'occhiolino.

LIAM'S POV'S (il padre di Charlotte)

Presi in mio telefono ed andai a cercare tra i contatti il numero che volevo chiamare.

«Pronto?» fece lei dall'altra parte.

«Sono io, auguri Lauren».

«Liam! quanto tempo, sono contenta di sentirti.» potevo sentire la sua reale felicità.

«Lo sono anch'io. Ti chiamo per ricordarti che non esiste giorno in più che possa scalfire di una virgola la tua bellezza.»

«Vecchio adulatore, sei ancora capace di farmi battere il cuore con semplici frasi.»

«Perchè sai che credo il ciò che dico.» le risposi prontamente.

«Lo so, lo so eccome.»

«Mi manchi, questo lo sai?» le chiesi.

«Liam, come posso fare in modo che tutto si sistemi? Non c'è modo, è troppo tardi.»

Sospirai alla sua risposta. Si ostinava a dire che non sarebbe più potuta tornare, ora. Che avrebbe dovuto saldare le sue colpe stando lontano da noi. Da me e da Charlotte.
Lauren diceva che non si meritava l'affetto di nessuno per aver lasciato sua figlia ed aver rincorso il suo sogno. Ma come potevo io fargliene una colpa? Lei era giovane quando Charlotte è nata, aveva solo diciotto anni e per lei, già al tempo una promessa del pattinaggio, sarebbe stato un peso essere rilegata ad una famiglia non voluta.

«Ma ora le cose sono cambiate, Lauren, tu vuoi riunire questa famiglia. Lo vuoi e lo puoi fare, fidati.» cercai di convincerla.

«Ti chiedo, come moglie, di non domandarmi più questo. Sai di ferirmi, è inutile continuare.»

«È inutile cercare di rincorrere te e i tuoi pensieri. Charlotte è lo specchio della madre, non c'è dubbio.»

«Con questo cosa vorresti dire? Piuttosto, l'ultima volta che io e te abbiamo parlato hai accennato al fatto che nostra figlia fosse tornata a Boston. L'hai vista? Come sta?» chiese preoccupata.

«No, ancora non l'ho vista. Ho solo ricevuto messaggi di scusa per le due volte che ha dato buca ai nostri incontri.» ripensai ai due pomeriggi che avevo passato seduto sulla poltrona nera aspettando l'arrivo di mia figlia.

«Capisco. Ha solo bisogno di tempo, vedrai, presto tornerà.» mi diede forza.

«Come farai tu?»

Non sentendo una risposta allontanai il telefono per vedere se avesse messo giù, appurato che non lo avesse fatto riavvicinai l'apparecchio elettronico all'orecchio.

«Sì, come un giorno mi deciderò di fare anch'io, amore.»

Never YoursDove le storie prendono vita. Scoprilo ora