2. Garage e riunione

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La mattina mi svegliai con i raggi del sole puntati sul viso. Mi rigirai più volte nel letto e quando decisi di essere psicologicamente pronta mi alzai dal dirigendomi in cucina a fare colazione. New York era già in fermento e mi persi a guardare le macchine e le persone che correvano verso i palazzi dove lavoravano, controllai l'ora e notando che erano già le otto del mattino mi affrettai a bere il mio tè per poi prepararmi. Indossai i primi jeans e la prima canotta che mi vennero sottomano, legai i capelli alla bell'e meglio e scesi di corsa le scale. Salii in macchina e mi misi in strada per dirigermi verso il garage di Liam, dove tenevamo le macchine e le moto per i nostri... lavori, che dovevo mettere a posto. Spesso mi sentivo in colpa per tutti quei furti, ma Zayn mi convinceva che non sarebbe successo nulla e io speravo che i miei non scoprissero la verità.
Quando sollevai la saracinesca del garage spalancai la bocca nel vedere la mia macchina conciata in quel modo. Me la ricordavo messa molto meglio: la portiera del passeggero era completamente bollata e, in alcuni punti, mancava la vernice, il parabrezza era tutto scheggiato, un faro era rotto e, nel complesso, la carrozzeria era impolverata e da rimettere in sesto. Sbuffai e mi passai una mano sulla faccia: ci sarebbero voluti giorni di lavoro. Decisi di mettermi subito all'opera e presi il secchio che si trovava nell'angolo per riempirlo di acqua dal rubinetto mezzo arrugginito. Immersi nel secchio una spugna e iniziai a passarla sulle portiere e sui finestrini. Avevo iniziato da poco quando una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
«Cosa ci fai qua? Zayn ti ha lasciato questo compito ingrato?», mi voltai verso il ragazzo ed alzai gli occhi al cielo notando che era il riccio.
«No, la macchina è mia», risposi continuando a lavare la mia auto.
«Uh, quindi sei tu la ragazza con la quale devo lavorare», mi sorrise sperando ingenuamente che io avrei ricambiato.
   «Già», dissi freddamente, ma mi pentii subito di avergli risposto male quando mi tornarono in mente le parole di Zayn della sera prima. Feci cadere la spugna nel secchio e mi avvicinai a lui. «Ok, ascolta, visto che dovremmo lavorare insieme mi sembra giusto e sensato cercare di instaurare una certa... complicità? Sì, credo che si possa definire così. Quindi, visto che chi ben comincia è a metà dell'opera, prendi una spugna e aiutami», gli porsi un'altra spugna e aspettai che la prendesse, ma visto che non accennava ad allungare la mano gli sorrisi ed inarcai le sopracciglia.
   «Da dove inizio?», mi chiese poi stringendo in un pugno la spugna.
   «Da dove ti pare», risposi facendo una giravolta e tornando al secchio. Di tanto in tanto lo osservavo per assicurarmi che svolgesse bene il semplice compito che gli avevo affidato  e dopo qualche minuto decisi di potermi fidare del suo lavoro.
   «Da quanto tempo fai parte della banda?», mi chiese ad un certo punto rompendo il silenzio che si era creato. 
   «Non siamo una banda, più un gruppo di amici che hanno un passatempo! Comunque da due anni», risposi.
   «Strano passatempo derubare una banca messicana!», esclamò a voce troppo alta.
   «Prima regola del gruppo: non parlare mai del gruppo», lo ammonii cercando di non ridere mentre lo guardavo attraverso il finestrino.
   «Immagino che la seconda regola sia: non dovete parlare mai del gruppo», sorrise dal lato opposto dell'auto.
   «Impari in fretta», mi congratulai con Harcèlent. Continuammo a lavorare per qualche ora, fino a quando il rumore dei passi di uomini in giacca e cravatta che si dirigevano verso il bar più vicino per la pausa pranzo ci fece accorgere che era già l'una. Harry, ammesso che si chiamasse così, lavorava senza dire una parola e già solo questo suo modo di fare me lo fece apprezzare un po' di più.
Feci il giro dell'auto, con in mano ancora la chiave inglese che avevo usato per cambiare le ruote, e mi avvicinai a lui.
   «Quella vuoi darmela in testa?», mi domandò il ragazzo riccio senza staccare gli occhi del motore che stava controllando.
   «No, ti volevo solo chiedere se avevi fame», risposi arrossendo leggermente. Si mise in piedi e fece scricchiolare la schiena.
   «Va bene, ho solo cinque dollari, però», mi avvertì storcendo il naso.
   «Io non ho soldi... andiamo al ristorante qua vicino?», proposi pulendomi le mani in uno straccio che era finito sul pavimento del garage.
   «Sei scema? Non abbiamo soldi!», mi ricordò avvicinandosi a me. Alzai gli occhi al cielo e mi voltai verso di Harold.
   «Fidati di me, basta che mi reggi il gioco», gli feci l'occhiolino e lo trascinai fuori dal garage.

Upside down |H.S.|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora