TRENTACINQUE

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Beckett era rimasta tutta la notte nella stanza di Joy mentre lei era ignara della sua presenza e di chi fosse. Kate l'aveva accarezzata a lungo, non le aveva mai lasciato la mano, l'aveva sentita a volte lamentarsi o stringere la presa sulla sua mano ed allora le si era avvicinata di più, sussurrandole quello che avrebbe sempre voluto dirle e non si era mai resa pienamente conto quanto le fosse mancata fino a quando non l'aveva conosciuta ed aveva cominciato a passare del tempo con lei. Le era rimasta vicino, come mai aveva fatto, perché non era solo la vicinanza fisica, era la consapevolezza del suo ruolo, ora che non doveva più mentire e fingere, ora che non aveva problemi a dire che era lì, perché era sua madre. Se lo ripeteva, mentre la guardava, mentre le accarezzava le dita della mano, una ad una, in quel gesto che dicono sia istintivo per tutte le madri, appena nato il proprio figlio e quel giorno, in quell'ospedale, non era nata sua figlia, ma sentiva che era nata lei, come madre.

Era uscita in silenzio, così, come era entrata, asciugandosi quelle lacrime che si era imposta di trattenere, perché non aveva nessun diritto di piangere, non davanti a lei. Ora che era fuori dalla porta, però, poteva lasciarle sfogare, farle bagnare il volto e liberarsi di ogni costrizione. Non doveva essere forte, non voleva essere forte, voleva solo essere una madre preoccupata per sua figlia. Era uscita quando era entrata un'infermiera a controllare i suoi valori, erano buoni, le aveva detto, l'avrebbero svegliata tra poco, per fare degli esami. Non voleva essere lì quando si svegliava, non voleva mentirle ancora ma nemmeno poteva dirle tutto in quel momento, era ancora troppo provata e doveva essere sicura che stesse bene.

Appena alzò lo sguardo lo vide: Castle era seduta su una di quelle sedie del corridoio, vicino ad altri genitori e la sua espressione era esattamente uguale a quella degli altri, preoccupata, tesa e impaziente appoggiato con le braccia sulle ginocchia e leggeva nella sua postura il peso della stanchezza che gravava sulle sue spalle. Gli fece un po' effetto vederlo così: in ansia per sua figlia.

Castle doveva aver percepito che lei fosse uscita dalla stanza, non sapeva perché con lei c'era questa cosa, sentiva la sua presenza e si era accorto che lei era lì e lo stava guardando. Si alzò dalla sedia, sentendo i muscoli del corpo tirare per quella posizione assunta per molto più tempo di quanto credesse.

- Si è svegliata? - Gli chiese immediatamente.

- No, non ancora. Ha dormito tutta la notte, ha detto l'infermiera che ora le faranno gli altri esami. - Spiegò lei riuscendo a parlarsi in un tono molto più civile della sera prima.

- Sì, me lo hanno detto prima... Ti ha cercato Esposito, Montgomery e Cox vogliono vederti subito, gli ho detto che eri in osservazione dopo che eri stata ferita, comunque ti aspettano al distretto.

- Grazie...

- Di nulla... Come va? Il braccio dico...

- Solo un graffio, mi hanno preso di striscio.

- Avrai problemi? - Sembrava seriamente preoccupato, anche per lei.

- No, non credo, qualche giorno e la ferita si richiuderà. Ha detto Thompson che non ci sono problemi nemmeno per il prelievo per Joy.

- Oh, bene... comunque io dicevo al distretto... Avrai problemi per la tua azione non autorizzata?

- Sì, probabilmente sì. Ma non mi importa. Ne è valsa la pena, non potevamo aspettare di più, Joy non poteva aspettare ancora. - La sua inquietudine era visibile, da come stringeva le mani tra loro, dalla guancia morsa nervosamente quando non parlava, quella situazione la imbarazzava e non riusciva a nasconderlo.

- Già... non poteva aspettare ancora... - Ripetè annuendo.

- Io allora vado...

- Sì e Beckett... Starò io con Joy, adesso non è necessario che tu torni.

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