TRENTOTTO

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- Buongiorno Katie, da quanto tempo! - Una voce squillante ed amichevole l'aveva salutata appena era entrata nello studio. Mary si era alzata per andarla a salutare personalmente. Lavorava lì da sempre, l'aveva vista crescere era una di quelle figure familiari che se andava indietro con la memoria poteva ritrovare in ogni fase della sua vita, da quando da piccola si aggirava per i corridoio e voleva entrare negli uffici chiusi e lei le correva dietro e la corrompeva a stare buona con qualche biscotto che teneva nel cassetto della scrivania, insieme a pratiche e documenti. Era l'unica a chiamarla ancora così, oltre suo padre. Per tutti era Kate, per Mary era ancora Katie.

- Ciao Mary, papà è libero? - Le chiese mentre ancora la abbracciava.

- È con un cliente già da un po', ma credo dovrebbe finire tra poco. Aspettalo, magari andate a pranzo insieme, così lo tiri un po' fuori da qui...

- Sì... magari... - Era ancora in preda alle emozioni per la visita di prima a Joy ed ora doveva compiere l'ultimo passo, doveva dire di Joy a suo padre.

- Va tutto bene Katie? Ti vedo strana... - si preoccupò Mary guardandole il viso. Doveva avere una pessima cera, pensò.

- Sì, giornate un po' complicate a lavoro, un caso complesso da risolvere. - Non era del tutto una bugia, in fondo.

- Scommetto che tu lo hai portato a termine brillantemente! - Mary era così, le faceva sempre i complimenti, per qualsiasi cosa. Era stata sempre molto protettiva verso di lei, quella figlia femmina che non aveva mai avuto, madre di tre maschi, ma dopo la morte di Johanna, ogni volta che la vedeva, ancora di più.

- Più o meno sì. - Le accennò un sorriso.

- Non avevo dubbi tesoro! - Le diede un sonoro bacio sulla guancia e proprio in quel momento arrivò Arthur, uno dei soci di suo padre che la salutò con un sorriso, aveva bisogno di Mary per trovare dei documenti e la donna a malincuore si congedò seguendo l'altro avvocato nel suo studio.

Aspettò seduta sfogliando il NY Times di quel giorno, in realtà senza leggere nulla, girava le pagine a vuoto, per ingannare il tempo, fino a quando non sentì la porta dello studio di suo padre aprirsi. Lo vide salutare sulla porta il suo cliente, dargli appuntamento in tribunale e rassicurarlo con i suoi modi pacati di stare tranquillo. Quando la vide, però, il suo viso si illuminò. Kate non era solita andarlo a trovare, per lo più si incontravano qualche volta, per cena, in qualche tavola calda anonima, dove non ci fossero ricordi di nessun tipo, era meglio per entrambi. Evitava di andare a studio o a casa e in tutti quei posti dove aveva più ricordi della sua famiglia. Sorrise anche lei, quando si incrociarono i loro sguardi, un sorriso tirato e nervoso che non sfuggì a Jim che scambiò velocemente gli ultimi convenevoli con l'uomo e poi la raggiunse.

- Katie, come mai qui? È successo qualcosa?

- Ti devo parlare papà... è importante.

Il ristorante ad un paio di isolati dallo studio era un posto abbastanza neutrale. Aveva aperto da pochi anni, non era un posto dai ricordi particolari, ci avevano mangiato un paio di volte insieme, cucina semplice, un posto tranquillo, frequentato per lo più a pranzo da gente che si fermava per lavoro, pranzi veloci e leggeri.

Kate vide un tavolo che si era appena liberato, in fondo alla sala, tranquillo, un po' più isolato degli altri. Il cameriere le disse che doveva aspettare perché dovevano ancora sistemarlo: non c'era problema, non avevano fretta. In realtà non sapeva se suo padre l'avesse, ma decise lei, una volta, per entrambi, senza farsi troppi problemi. Jim ne fu sorpreso. Di solito era sempre Kate quella di corsa, con il telefono sempre a portata di mano, pronta a ricevere chiamate. Si stupì, invece, quando la vide spegnerlo nel momento in cui si sedettero, mentre un cameriere puliva il tavolo e poi portava nuove tovagliette e posate.

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