Capitolo VIII

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Grazie a chi mi sta supportando in questa piccola impresa con i propri commenti di incoraggiamento. Mi sento lusingato e credo di non meritate tutto queste attenzioni. Vi ringrazio tantissimo: una storia senza lettori è nulla, non ha voce.
Un ringraziamento particolare va a AretusaSkyler per le correzioni e la sua attenzione. Un altro ringraziamento è dovuto a EmperorOfDisaster i cui commenti mi hanno creato una parvenza di fragilità più spessa della precedente.

La villa, come il corpo di un enorme pachiderma morto, sognava alla luce di una mezza luna alta e scarna, un sorriso marcio di un folle nel cielo colmo di stelle limpide e morenti. Quante di quelle - si era chiesto Jaques-Luis nelle notti insonni della sua infanzia - erano già morte? Chi era lo scriba dei destini generali che fluttuava negli spazi ghiacciati e statici dell'immensità cosmica? In quale dei più remoti ed insondabili mondi immobili sarebbe tornato? Da quale di essi, morto e sognante, lo chiamava il fratello annegato?

A tredici anni aveva smesso di porsi quei quesiti patetici ed aveva iniziato a bere senza sosta, il vino era come un anestetico per la sua mente pulsante, una mente che esplodeva in boati di sangue ogni volta che la musica di Wagner fuoriusciva della casa di Jules Dubois, il pianista del secondo piano che abitava affianco alla piccola chiesa gotica e lacera come un tempio pagano in rovina. Amava Wagner, amava Nietzsche ed odiava la loro amicizia: altri uomini morti a cui baciare le caviglie di scheletri marci, altri volti inconoscibili se non nel sacro gemito dell'ultimo addio. Da ubriaco, nelle interminabili ronde claudicanti per le vie deserte e buie del paese si diceva che solo Chopin poteva lenire i suoi affanni infantili e saziare i suoi capricci di bellezza estatica e senza tempo. Wagner era morto, Chopin si era semplicemente trasformato in musica. Ma nessuno suonava Chopin ed i dischi di Monsieur David si erano ormai consumati.

Non aveva amici, solo amanti incapaci d'amarlo. Vedeva i ragazzini giocare a biglie sul ciottolato dissestato della piazza, con i calzoni corti e lo sguardo virgineo ed ingenuo; lo temevano come si teme la strega del villaggio che nessuno ha il coraggio di bruciare, sicuri che il demonio avrebbe gettato l'ombra delle sue titaniche ali di corvo sui profili della case dormienti ed il cielo si sarebbe tinto di cremisi, i crocifissi appesi sopra i letti disfatti avrebbero pianto sangue ed ogni cosa sarebbe perita nei fuochi fatui emanati dai corpi morti dei loro amici e familiari.

Non gli dispiaceva essere odiato d'un odio così antico e bigotto. Strozzava il collo azzurro della noia con il vino e gli amplessi dolorosi che affrontava senza piangere mai, vomitava e fumava fino a sputare sangue pastoso e violaceo dalle labbra distrutte dal freddo e da baci malfatti. Tornava a casa e leggeva le righe di uomini morti che non avrebbe mai potuto sfiorare, gli unici che fosse capace di amare perché non aveva mai imparato l'amore, ed in cuor suo sapeva che non sarebbe mai stato capace di apprendere l'arte antica d'adorare un altro essere umano piegandosi con ardore alla dea del sacrificio e dell'obbedienza.

Purificava il sesso con la poesia ed adornava la poesia di sesso. Nei suoi sogni si estendevano senza fine campi di papaveri bruciati dal sole, sotto quel cielo altissimo e bianco ove non sarebbe mai venuta la pioggia purificatrice e sognava - ancora ed ancora, irrimediabilmente ogni notte - due occhi eterocromi che lo spiavano e lo leggevano come se gli appartenessero da un'era dimenticata di qualche vita passata e vissuta male. Che fossero gli occhi di una donna che un tempo aveva amato, in qualche landa egizia di sabbia ed oro? Erano gli occhi del Diavolo o quelli di Dio? Fluttuavano nelle acque chimiche e nere del pozzo, incasellati in un volto di cui non riusciva a distinguere i lineamenti ma di cui indovinava la bellezza purissima da angelo intatto e vincitore.

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