Capitolo IX - Tamerici appassite

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La casa di Dorian era un corpo. Un piccolo corpo rachitico e vinto, deforme, erroneo.

Jaques si era svegliato nella solitudine impastata dalla luce esangue delle dieci del mattino del neonato santissimo anno 1923.

Mancavano dieci giorni all'occupazione di Ruhr e sicuramente politici e veggenti avevano già predetto l'inconveniente - chi per intuizione tipica dell'accumulata esperienza, chi per visione onirica, anche se risultava difficile intendere a quale delle due categorie cittadine si riferisse quello sguardo nel futuro -.

Il futuro, pensava Jaques disteso, ad occhi sbarrati sul soffitto pezzato di umidità, ed una paura torbida lo strozzava. Stringeva le labbra, e gli occhi si serravano e schiudevano tentando di mettere a fuoco il risveglio di un pigro ragno nell'angolo destro del soffitto, nella ragnatela semidistrutta che pendeva come le dita di un morto nell'aria scura.

Dormire su di un materasso, a contatto con il nudo pavimento, gli era parso così estraneo che si rimirava il corpo dolorante, come sconvolto nel trovarlo immutato.
Si era abituato alla fame, al gelo ed al dolore, ma mai avrebbe potuto ritrovare familiare e sopportabile quel materasso umido sul quale si era costretto, si disse tirando le labbra secche in uno sbadiglio melanconico. Provava per quel letto miserabile lo stesso disgusto che avrebbe provato nel ritrovarsi, recise e seppellite le sue gambe, due stecche di legno scheggiato.

Quando si dorme su di un materasso, rialzati pochi centimetri dal suolo, ci si sente vulnerabili, scoperti.
Il freddo del pavimento risale nelle articolazioni, tormenta i bronchi, intasa le vie aeree e si insinua nelle orecchie come un gemito stridulo.

La fine del mondo, si disse, veniva quell'anno. Lo sentiva nelle grida di una donna nell'appartamento adiacente, nei vuoti d'aria tra le foglie d'edera del balcone arrugginito al piano superiore, tra le ossa scricchiolanti della schiena, sulla ferita incrostata del polso.

Faceva male, sentirsi vinto e solo in quello pseudo-letto disfatto - sensazione che avrebbe provato ancora ed ancora, nei mesi che sarebbero venuti -.

Quando si alzò la testa gli girava, faceva fatica a tenere aperti gli occhi umidi, le ciglia vibravano. Strisciò verso l'unica porta - oltre quella d'ingresso - dell'abitacolo, ancorandosi al tavolino, alle pareti, come un naufrago esausto che si trascina tra la vegetazione d'un isola deserta in cerca d'acqua.

Riusciva ad immaginarsi: sporco, con le labbra bianche e le occhiaie nere, malato, un morto di fame quale era sempre stato. Sarebbe riuscito a redimersi con un bagno caldo o aveva bisogno di farsi scopare fino al collasso per evitare uno dei suoi nauseanti attacchi di malinconia?

Vomitò in ginocchio, con la catena arrugginita dello sciacquone che tintinnava e le dita contratte sulla ceramica lucida. Si lavò il volto come se si stesse scorticando, e mentre stava chino sul piccolo lavabo si chiedeva quali smorfie demoniache dovesse fare il suo riflesso, quali espressioni di noia, quali caricature di se stesso. Non poteva sapere cosa realmente facesse la sua copia nello specchio in quegli istanti di cecità bagnata quel pensiero bizzarro fu orrificato ed allo stesso tempo reso divertente dal paradosso che strisciava, viscido, nel suo ventre vuoto e freddo.

Si rizzò di scatto, riemergendo dal lavabo ansante e gocciolante come al limite di un annegamento. Spinse la fronte bagnata contro la gelida superficie del vetro riflettente, una mano arpionava la cornice scrostata e dorata - come di certi specchi antichi, ma talmente fasulla da esser quasi una caricatura-. I suoi occhi sgranati, arrabbiati, così vicini nel riflesso lo sconcertarono. Si sentiva spietato, improvvisamente invincibile ed allo  stesso tempo disperatamente miserabile, come certi uomini ubriachi che corrono nella notte, grondanti di sudore e lacrime, urlando al vento il loro odio antico.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Feb 17, 2018 ⏰

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