Capitolo IV - Luna tisica

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Sei piani mal illuminati in cui riecheggiavano urla isteriche e lamenti di bambini. Gli scalini gli scricchiolavano sotto le scarpe consunte, l'odore del legno marcio e della moquette appassita lo distraeva dal dolore pungente che pulsava tra i muscoli irrigiditi dal freddo.

Infine, una porta. Il rumore metallico di chiavi che scattano nella serratura, una parete che respirava nella penombra blu. Un crocifisso di gesso con un braccio disperso, si reggeva ostinato alla croce, inchiodato all'unica mano che gli rimaneva.
Quel crocifisso brillante di candore lunare lo ammoniva con quel volto piatto, alieno. L'oscurità era fredda ed immobile. Nessun paradiso splendente, solo l'oblio di una stanza che puzzava di marcio. Una nave dormiente negli abissi dove la luce non s'azzardava a spingersi, mari neri colmi di creature titaniche e silenziose.

Jaques-Luis cadde in ginocchio sul pavimento gelido e sporco. Chiuse gli occhi e due lacrime calde gli graffiarono il volto rosso di freddo, quando li riaprì l'oscurità s'era dissipata e la luce calda ed immobile di due lampade ad olio illuminava in modo malforme il piccolo appartamento, lasciando zone d'ombra terribili negli angoli e nelle scie d'aria in cui le luci non si sfioravano.

L'odore di acqua e vernice e polvere lo fece tossire e sentì i polmoni bruciare come sotto il peso di violenti colpi di frusta, si guardò intorno alzandosi sulle ginocchia livide e tremanti.

Un'ampia finestra dal vetro incrostato lasciava che la luna respirasse nella stanza, la sua luce argentea fendeva l'oscurità come una dolce ferita infetta e si depositava sul materasso gonfio d'umidità gettato a qualche centimetro dall'ossatura di legno grezzo del finestrone.

Tra il tavolo ed il letto vi era un buio denso e freddo.

Sul piccolo tavolo rotondo stava poggiata la lampada ad olio che accarezzava il profilo arrugginito di un cucinino silenzioso. Attorno al tavolo due sedie ed uno sgabello impaurito, ribaltato sul pavimento.

La seconda lampada stava accovacciata ai piedi di un armadio marrone, tutto storto e tremante come un vecchio ubriaco.

La figura estranea si muoveva tra gli abissi del buio e si lasciava inghiottire, risaliva per qualche istante nei brandelli di luce, il tempo il cui Jaques potesse cogliere il trascinarsi incerto della gamba zoppicante ed i capelli rossi resi umidi dalla brillantina.

Poi, egli scomparve nell'angolo destro della nave annegata. Jaques respirò a fondo facendosi gonfiare le narici arrossate e strette.

Suoni secchi che gli rimbobarono nei timpani con la violenza di pugni tra le costole, infine una scintilla azzurra germogliata sulla parete. Come quell'iris solitario che aveva deciso di nascere ai piedi di una lapide grigia, lo ricordava ancora, erano passati dieci anni. In paese si gridava al miracolo: nessuno avrebbe osato estirparlo.

La fiamma si gonfiò e si tinse di un rosso acceso, il fuoco divorava il legno come un affamato disperato.

La luce rossastra ed informe prese a danzare sulle pareti, colmando i vuoti di buio, si stiracchiava sul pavimento sfiorandogli le ginocchia, come se lo invitasse ingenuamente a seguirlo nella frenesia della sua manifestazione.

Tutto moriva ed ogni cosa nasceva ancora, tra le fiamme isteriche ed urlanti. Nel fuoco antico il grande enigma dell'esistenza trovava la sua risoluzione.

Un sorriso tremante gli ferí la bocca quando notó che il crocifisso mutilato era il culmine d'un altare manifestatosi sotto forma di una vasca da bagno sporca che si reggeva su quattro piedi dorati e scrostati.

Si passò la manica della grande camicia sugli occhi umidi, aveva un'espressione ingenua, da bambino.

Sul tavolo stava ora posato un piatto di patate fredde ed una bottiglia verde, quasi vuota, di vino rosso.

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