Capitolo 6

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Mi infilai in macchina e mi affrettai ad allacciarmi la cintura. Dovevo raggiungere Andreas in aeroporto in meno di 10 minuti, anche se ancora non ci credevo che mi fossi lasciato convincere a partire. Sapevo che se avessi rispettato tutti i limiti di velocità non sarei mai arrivato in tempo, così decisi di spingere un po' sull'acceleratore.
Mi distrassi un attimo, giusto per controllare l'ora sull'orologio, ma quell'attimo fu abbastanza da non rendermi conto di una ragazza che stava attraversando le strisce pedonali, a pochi metri da me. Si sentì il rumore delle ruote stridere sull'asfalto a causa della frenata improvvisa e poi il completo silenzio. Chiusi gli occhi e tutto ciò mi fece riflettere su quanto fosse facile perdere la vita, anche a causa di banalità. Mi maledii silenziosamente per essere stato così stupido, mi alzai dal sedile e aprii lo sportello per la paura di aver ferito la ragazza. La trovai a terra, distesa con qualche graffio sulla mano, probabilmente per l'impatto con la strada. Tutto d'un tratto spalancò gli occhi e iniziò a gridarmi contro. Fortunatamente la zona dove accadde tutto ciò, era periferica e di passanti non ce n'era nemmeno l'ombra.
«Ma sei impazzito? Rischiavo di rimanerci sotto!» strepitò arrabbiata.
«La patente non la dovresti vedere nemmeno con il binocolo irresponsabile!» urlò, accompagnando la frase con numerosi insulti che sapevo di meritarmi.
«Prima di tutto, stai bene?» chiesi preoccupato e cercando di mantenere la calma. Anche se stava delirando e mi stava maledicendo sono comunque una persona umana e mi ero preso un bel po' di paura.
«Si sto bene, ma tu mi hai fatto perdere il taxi e probabilmente anche l'aereo» rispose nervosa, così proposi: «Se devi correre in aeroporto, ti posso accompagnare io, a patto che tu ti sbrighi perché anche io sono in ritardo».
«Cioè prima mi metti sotto e poi pensi anche di poter dettare tu le regole? Dai aiutami con le valigie».
Si avvicinò con 5 troller tutti di grandi dimensioni, tant'è che mi preoccupai perché non sapevo se lo spazio che avevo in macchina era abbastanza per farcele stare.
«Dai non fare il prezioso. Vieni qui e caricale in macchina, nessuno di noi due vuole perdere tempo no?» chiese retoricamente ed io la aiutai a inserirle nel bagagliaio senza nemmeno riflettere sulle sue parole, era una donna: aveva ragione, o quanto meno bisognava dargliela a prescindere.
Non appena si sedette sul sedile del passeggero, io accesi il motore e partii. Il silenzio, per la prima volta in tutta la mia vita, stava diventando pesante e oppressivo.
«Non mi hai nemmeno detto come ti chiami?» mi decidi a chiederle. Lei mi rivolse uno sguardo confuso e mi rispose:«Federica, Federica Carta».
«Riccardo Marcuzzo» dissi e le porsi la mano. Lei però non fece nessun movimento per stringerla, anzi si allontanò.
«Cerca di non distrarti dalla strada, non vorrai mica causare un altro incidente?». La vena ironica e provocatoria del suo carattere mi infastidiva ma allo stesso tempo mi stuzzicava. Avevo conosciuto una ragazza inusuale, a tratti così tanto strana e a tratti uguale a tutte le altre.

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