14. Weapons don't weep

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Campo di addestramento Al-qaeda, confine tra Kuwait e Iraq.

"Alzati! Non addestriamo bambini!"

L'adrenalina mi scorse nel sangue, a sentirlo. Mi misi a carponi, con una fatica immane. Sentivo la faccia pulsare dove Amir mi aveva appena colpita e un rivolo di sangue che cadeva dal labbro spaccato. Tutte le ossa dolevano e i muscoli tiravano, il mio corpo intero sembrava gridare di non muovermi.

Riuscii a mettermi sulle ginocchia, poi in piedi. Amir mi guardava in cagnesco e l'istruttore, Jabaar Almahmoud, mi guardava freddo, quasi come avesse preferito che restassi a terra.

"Forza, finiscila" ordinò ad Amir con un forte accento somalo.

Amir fece per caricare un pugno, ma io riuscii a racimolare le ultime forze rimaste, con le quali afferrai la sua mano chiusa e la feci ruotare dietro la sua schiena. Gli premetti il braccio contro la spina dorsale e lo buttai a terra. Rimasi sopra di lui fin quando non lo sentii gridare che si arrendeva.

Quando mi alzai incontrai lo sguardo freddo e distaccato di Almahmoud, che invece di complimentarsi con me mi sibilò tra i denti "Tutta fortuna, ebrea."

Rimarcò così tanto quella parola da farmi sentire offesa, quasi inadatta.

Almahmoud non mi avrebbe mai voluto nell'organizzazione. Era un addestratore di Al-qaeda e ce l'aveva a morte con me perché ero Israeliana, e me lo si leggeva in faccia.

Era stato il capo supremo a volermi, per via del mio legame con il Mossad. Mi volle nell'organizzazione a tal punto da farmi rapire.

Potevo tornargli utile, ma non sapeva che mai e poi mai avrei fatto qualcosa contro la mia patria, avrei preferito morire piuttosto. Passavo i giorni a dimostrare quanto fossi preparata, così mi avrebbero mandata prima sul campo e in qualche modo sarei riuscita a scappare, come sempre.

Tornai nella camerata, zoppicando. Non ci era permesso curare le ferite, quindi mi limitai a guardarmi nello specchio. L'occhio era circondato da un cerchio viola che arrivava fino allo zigomo, mentre il sangue mi imbrattava la maglietta.

Mi diedi una ripulita e gemendo per il dolore mi sdraiai sulla mia brandina.

Restai a fissare il soffitto sopra di me per non so quanto tempo, quando qualcuno mi risvegliò dai miei pensieri.

"Che fai? Non vieni a cena?"

Era un ragazzino della mia età, mai visto prima di allora.

"Non ho fame."

"Però...sei conciata male. Chi ti ha fatto questo?" Si avvicinò a me per guardarmi meglio, ma io mi girai dall'altra parte, maledicendomi mentalmente per il dolore che quel movimento mi provocò.

"D'accordo...io sono Tariq, comunque."

"Sarai" risposi.

"Bel nome, sei Israeliana?"

Non risposi, temendo la sua reazione.

"Diversamente da tutte le persone che lavorano qui dentro io non ho niente contro Israele, credimi."

"Perché mai dovrei crederti?"

"Non lo so, forse perché hai bisogno di un amico?"

"Cosa- Io non ho bisogno di un amico." Risposi scocciata.

"Invece sì, nessuno dovrebbe stare solo."

Parlammo per delle ore, nemmeno Tariq cenò. Era un ragazzino così dolce e premuroso che mi si strinse il cuore quando realizzai che anche lui era lì, a vivere quell' inferno. Mi fece compagnia fin quando nella camerata non entrarono gli altri ragazzi, poi andò a stendersi sulla propria brandina promettendomi che avremmo parlato anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora.

Quella fu l'ultima volta che lo vidi.

La mattina presto lo mandarono a fare "un lavoretto semplice" nonostante fosse appena arrivato, e ovviamente non ce la fece.

Scoppiai a piangere quando venni a sapere dell'accaduto e ricorderò sempre come Almahmoud mi guardò freddo e mi disse "Smettila! Tu sei un'arma e le armi non piangono."

Mi sveglio di soprassalto. Sento il viso freddo, bagnato da un misto di sudore e lacrime. Una presa delicata ma decisa mi tiene il polso, mentre una voce calda mi sussurra "Shh...Hakol beseder..."

"Ziva..."




hakol beseder : va tutto bene, in ebraico.

NCIS: Nesikha [COMPLETA]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora