2. ASHTON

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Erano ormai le otto di sera quando il signor Duncan Hemmings decise fosse arrivato il momento di rincasare. Salutò brillo i suoi amici del bar, ubriachi tanto quanto lui, e strinse la mano a suo nipote, un bel ragazzone che giocava a rugby nella squadra locale. Un ragazzone che era pelato a causa dei mesi di chemioterapia serviti a debellare il cancro, malattia che, se possibile, lo aveva reso ancora più duro. Aveva venticinque anni, ora, e sua madre ne aveva appena trent’otto. Era stata violentata quando aveva tredici anni, e il fato volle che restasse incinta.

“Deve essere di famiglia” pensò il signor Hemmings scoppiando a ridere, esterrefatto dalla sua battuta, benché, lo riconosceva, non ci fosse nulla da ridere.

Così, traballante e spensierato come non mai, si incamminò per la strada verso casa. A metà tragitto vide una giovane coppia pomiciare beata sotto un albero, e fu quella visione a fargli venire voglia. Quella voglia, per intenderci. Pensò che sua figlia non avrebbe avuto niente da obiettare. Era una cara ragazza. Incassava i colpi senza mai lamentarsi di nulla. Era suo figlio, piuttosto, a preoccuparlo. Quel piccolo piantagrane.

Aprì la porta di casa contento come un bambino in un negozio di caramelle.

“Louise! Louise!” chiamò a gran voce il nome di sua moglie un paio di volte, mentre si sfilava il leggero giubbotto di pelle nera per appenderlo all’appendiabiti infisso di fianco all’entrata. Non ricevette risposta. Le possibilità erano due: o era uscita fuori di casa a fare Dio solo sa cosa, oppure era riversa al suolo, magari stroncata da una dose troppo forte. In cuor suo, Duncan sperava fosse la seconda.

“Dafne, amore, sono in casa!” urlò con tono affettuoso, come se le immagini che gli vagavano in testa fossero solo quelle della sua bambina stretta al petto, e non del suo corpo adulto dentro quello di una ragazza. Anche questa volta, non ricevette risposta.

Non si perse d’animo, non si spazientì. Non subito, almeno. Incominciò a corrugare la fronte quando non la ritrovò in cantina dove l’aveva lasciata, né in salotto, né in cucina, dove prese una bottiglia di birra ghiacciata dal frigo, né in bagno. Nemmeno in camera sua, dove l’unica forma di vita presente era sua moglie, accasciata per metà sul letto e per metà sul pavimento. Tastò il polso, e sentì pulsare. Merda, respirava ancora.

L’unico altro posto in cui poteva cercare era la stanza da letto di suo figlio, Luke. Quel moccioso che avrebbe strangolato tanto, ma tanto volentieri. A volte lo sognava, di notte, di stringere le mani attorno al suo collo fino a soffocarlo. Un giorno avrebbe dovuto metterlo in pratica, pensò sorridendo.

Spalancò la porta della camera di Luke togliendosi il sorrisetto divertito che aveva appena un attimo prima. Lo trovò sdraiato sul letto, le mani piegate sotto la testa, una gamba piegata, gli occhi chiusi, intento a guardare il soffitto. Non si girò nemmeno a guardarlo, il bastardo. Era suo padre, che diamine. Si meritava una bella lezione.

“Dov’è andata tua sorella?” chiese meccanicamente, scolando la parte finale della bottiglia che, a parer suo, era sempre la migliore.

“Non lo so”

Aveva voglia di fare il saccente, il ragazzo. Aveva voglia di prendersi gioco di lui. Gli si avvicinò, e, afferrandolo per il colletto della maglia, aspettò che egli lo guardasse negli occhi. Quegli occhi così simili ai suoi, che però, a detta di padre, non erano così tanto scaltri, intelligenti. Finalmente, dopo svariati minuti, lo guardò.

“Lasciami” mormorò languido, come se parlare gli costasse un’immane fatica.

“Sentimi bene, ragazzino. Se non vuoi ritrovarti con qualche costola rotta, ti conviene dirmi dove si trova” furono parole a denti strette quelle che scaturirono dalla sua bocca, parole che puzzavano di fumo e di alcool. Parole dure. Parole sagge. Ma Luke non rispose.

Ricordaglielo anche quando in cielo brilla il soleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora