9. CONVIVENZA

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La mattina del venticinque dicembre, appena mi svegliai, scesi dal letto. In quel momento non mi resi conto che fosse arrivato Natale. Tutto ciò che cercavo era una bottiglia di latte da trangugiare immediatamente. Niente di più, niente di meno.

Quando arrivai in salotto, trovai l’albero che avevamo allestito io e Ashton quasi un mese prima in funzione. La stella sulla cima brillava, i festoni scintillavano a dovere, e le luci colorate pulsavano ritmicamente. Quell’albero era tutto ciò che ricordava il Natale, in quella triste casa. Gli ero immensamente grata di esistere.

Entrai in cucina e trovai Ashton appeso a un’anta dell’armadio vestito da Babbo Natale di tutto punto. Non gli mancava niente: cintura, guanti, cappello. Tutto al posto giusto. Scoppiai a ridere. Quella finta barba bianca lo faceva sembrare uno di quei simpatici vecchietti che si trovano al bar la domenica mattina.

“Ashton? Che ci fai appeso lì in alto, come una scimmia?”

Mi dovetti aggrappare allo stipite della porta, per non cadere. Scoppiai a ridere, e lui mi seguì a ruota. Quel ragazzo non sapeva stare serio. Sapeva però come divertirsi.

“Auguri di buon Natale, Dafne” disse infine, avvicinandosi a me e cingendomi i fianchi con le mani. Le nostre bocche erano terribilmente vicine, ma non si sfiorarono. Non questa volta. Questa volta nessuno dei due doveva essere fermato.

“Oh, che sbadato. Aspetta, devo darti il tuo regalo”

Sparì dalla mia vista in un lampo, lasciandomi lì, sola, a bocca aperta. Davvero mi aveva fatto un regalo? Mi sentii tremendamente in colpa. Io nemmeno ci avevo pensato, a fargli un regalo. La situazione, le emozioni mischiate tutte insieme, avevano deviato il flusso dei miei pensieri, portandoli da un’altra parte. Mi morsi nervosamente il labbro, fino a quando Ashton non mi si parò davanti.

“Ecco, Dafne, questo è per te. Non è poi molto, ma… insomma, a caval donato non si guarda in bocca, diciamo così”

Sorrisi, poi mi misi a scartare il pacchetto con una lentezza estenuante. Quando lo aprii, mi ritrovai davanti un braccialetto color Tiffany, al quale era stato aggiunto un ciondolo: due lettere, una A e una D, rispettivamente nera e bianca, sulle quali era stato posto un puntino del colore opposto. Una sottospecie di yin e yang, insomma.

Una specie di Ashton e Dafne, per dire.

Poi, pensai a Luke. Chissà come se la stava passando, a casa. Era il primo Natale che trascorrevo lontana da lui. Erano ormai sei mesi che lo vedevo. La situazione incominciava a pesarmi enormemente sul cuore. Solitamente, ci saremmo vestiti entrambi da Babbo Natale e la sua renna e saremmo andati a fare volontariato, distribuendo panettone e dolciumi vari a chi, purtroppo, non poteva permetterselo.

Una lacrima mi rotolò lungo la guancia.

Una sola.

E quella lacrima urlava il nome di Luke.

Poi, arrivò marzo, ed Ashton decise di portarmi allo zoo. Così, un giorno posto all’incirca a metà mese, partimmo. Ricordo chiaramente quanto Ashton fosse eccitato all’idea di vedere le pantere. Mi svegliò alle quattro del mattino. Avevo personalmente preparato gli zaini la sera prima, mentre tentavo di convincere Ashton ad andare in treno. Quando glielo proposi, mi fulminò con lo sguardo.

“Perché, non ti fidi delle mie capacità di guida?”

Scoppiai a ridere, sembrava un bambino pronto per fare un’audizione per essere arruolato come ballerino in un concerto, al quale viene però detto che non sa muoversi affatto bene “no, Ash, non è quello il problema. Il fatto è che spenderai un patrimonio, per la benzina. Dobbiamo andare a Sydney, diamine, nel Nuovo Galles del Sud. Ci metteremo un’infinità di tempo, e di denaro”

Ricordaglielo anche quando in cielo brilla il soleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora