CAPITOLO 11 "Un amico"

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Nel suo nuovo ambiente, Jo si sentiva felice e, pur essendo occupata in un lavoro che l'assorbiva molto e le permetteva di guadagnarsi da vivere, non rinunciava ai suoi tentativi letterari. Si era proposta delle mete, e questo era naturale, per una ragazza povera e ambiziosa. Ma fu il modo utilizzato per raggiungerle che non si rivelò certo dei migliori.

Sapeva che il denaro portava il potere e che il potere viene dal denaro, e si era prefissa di conquistarli entrambi, non per sé soltanto ma anche per tutti quelli che amava.

Sognava di riempire la casa dei genitore di tutte le comodità possibili, di offrire a Beth le cose più impensate, dalle fragole in inverno a un organo da tenere in camera, sognava di poter fare lunghi viaggi all'estero e di aiutare tutte le persone che ne avevano bisogno. Castelli in aria, uno più bello dell'altro.

Il premio vinto col primo racconto le aveva lasciato sperare che col tempo e la costanza i suoi desideri si sarebbero realizzati; poi il disastro del romanzo l'aveva scoraggiata, e così, con le critiche negative stampate nel cervello a lettere di fuoco, per un certo tempo aveva lasciato perdere carta e penna. Ma per sua fortuna aveva un animo forte e il suo motto era: "non arrendersi mai".

Quando decise di riprovare, scese un genere più facile e redditizio che non il romanzo. E fu così che rischiò di perdere qualcosa di molto più prezioso della ricchezza.

Cominciò a scrivere storie sensazionali, perché in quei tempi bui anche la superperfetta America leggeva ciarpame del genere. Senza dire niente a nessuno, raffazzonò un racconto a forte tinte e baldanzosamente portò di persona al direttore del Settimanale Vulcano. Il suo istinto femminile le suggeriva che, sulla maggior parte delle persone, il vestir bene aveva maggior peso che non la forza di carattere o le maniere impeccabili. Indossò quindi uno dei suoi abiti migliori e, sforzandosi di convincersi che non era né agitata né nervosa, salì d'un fiato due rampe di scale sudice e buie. Si trovò in una stanza immersa nel caos, di fronte a tre uomini sprofondati in altrettante poltrone con i piedi più in altro dei loro cappelli, i quali si guardavano bene dall'alzarsi e dallo scoprirsi la testa al suo ingresso.

Quell'accoglienza la raggelò un poco; rimase sulla soglia e disse, con voce esitante:

- Scusatemi, sto cercando l'ufficio del Settimanale Vulcano; vorrei parlare con il signore Dashwood.

Il paio di tacchi più alti calò verso terra e il fumatore più accanito si alzò tenendo il sigaro fra le dita e accennando un saluto. Aveva un'espressione sonnolenta, annoiata, che non prometteva niente di buono, ma Jo, ormai decisa a non indietreggiare, gli porse il manoscritto e, balbettando, sciorinò il discorsetto che aveva preparato per l'occasione.

- Un'amica mi ha pregato di presentarle questo manoscritto... vorrebbe conoscere la sua opinione... e sarebbe disposta a scriverne altri...

Mentre lei arrossiva e continuava a balbettare, il signor Dashwood prese il manoscritto e sfogliò le pagine pulite e ordinate con due dita macchiate di nicotina e d'inchiostro.

- Un primo tentativo? Non si direbbe – borbottò, notando che le pagine erano numerate, scritte su una sola facciata, e che mancava, a legarle, il solito nastrino, marchio inconfondibili dei novizi.

- No, infatti, signore, non è proprio il primo. Ha già avuto un premio per un racconto, indetto da un giornale della provincia.

- Ah, davvero?

Il signor Dashwood squadrò Jo dal nastro del cappello alla punta delle scarpe, poi aggiunse:

- Bene, può lasciarlo, se vuole. Di roba del genere ne abbiamo tanta da non saperne cosa fare, ma ci darò una scorsa e le farò avere una risposta la settimana prossima.

PICCOLE DONNE CRESCONODove le storie prendono vita. Scoprilo ora