Il Terzo Inverno

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Dalla nera polvere, dal posto
Della morte e delle ceneri, risorgerà il giardino come prima.
Così sarà. Credo fermamente nei miracoli.
Sei tu che mi hai dato questa fede, mia Leningrado.
(Olga Bergolz)


Il rumore della sirena, ormai, non spaventava più nessuno.

Era diventato un inevitabile sottofondo, una sorta di accompagnamento alle normali attività quotidiane.

Lizaveta, automaticamente, attraversò la strada, portandosi sul marciapiede di fronte e lasciando alle sue spalle la scritta bianca e blu che troneggiava sulla parete grigia del palazzo: Attenzione, in caso di bombardamento questo lato è il più pericoloso. Lo stesso fecero le altre donne in fila, in attesa delle razioni di cibo.

Anche il suono incessante e violento delle esplosioni era diventato un'abitudine. Le bombe che giungevano a rasentare la città erano tedesche, quelle che disegnavano traiettorie in lontananza erano dell'Armata Rossa, degli eroici soldati di Leningrado che impedivano, giorno dopo giorno, la disfatta della città.

Faceva freddo. Lizaveta affondò di più la testa nel cappotto, per scaldarsi. Era il terzo inverno, quello. Ottocentosettanta giorni che la città, fiera, aveva strappato ai nazisti che volevano annientarla. Giorni che Lizaveta aveva appuntato, a uno a uno, sul suo diario, giorni freddi e caldi, di felicità e di disperazione.
Il soldato addetto al vettovagliamento le rovesciò nella marmitta di latta un mestolo di zuppa di cavoli e carne, poi le diede uno dei pacchetti di viveri preparati alle sue spalle.

Non era il caso di indugiare.

Per carità, i giorni della fame che avrebbe spinto a qualunque atto erano finiti già da un pezzo. Non si correva più il rischio di morire per un quarto di pagnotta di segatura e colla, quei centoventicinque grammi di pane nero che, forse, avrebbero permesso di sopravvivere ancora un giorno. Nessuno si nascondeva più nell'ombra delle macerie per strappare di mano quel misero cibo. Eppure, le abitudini sono dure a morire: Lizaveta strinse forte il pacco avvolto nella carta di giornale sotto il braccio, e prese in fretta la strada verso casa.

Gli altoparlanti sistemati in giro per la città opponevano ai fischi luminosi dell'artiglieria nazista le note trionfali e meravigliose della Sinfonia n. 7 – la Sinfonia di Leningrado – scritta dal grande D'mitrij Shostakovitch nei terribili giorni del gennaio 1942. In quel momento, perfino il paradosso tra gli enormi proiettili che lasciavano straordinarie scie luminose nel cielo e i virtuosismi dell'orchestra aveva un suo senso.

Anche la sua stanza era gelida. Ancora una volta, il combustibile, bene prezioso e centellinato, era stato destinato al fronte. Lizaveta si sedette all'unica sedia rimasta, appoggiando il sacchetto di viveri sul davanzale della finestra, il suo tavolo. Dei mobili di buon legno lasciati da sua madre, non erano rimasti che il divano e quella sedia - tutto il resto era stato una buona merce di scambio, o aveva reso un buon servigio impedendole di morire di freddo.

In pochi minuti, il pallido sole di gennaio sarebbe tramontato, lasciandola al buio, nell'oscurità più completa. Si affrettò a raccogliere con il cucchiaio la zuppa liquida dalla marmitta, prima che congelasse. Più cavolo che carne, ma meglio di niente.

L'involto conteneva una buona razione di pane, del burro, due patate, completamente inutili fino a quando non fosse stato possibile cuocerle, e una scatoletta di carne – doni preziosi dagli alleati americani.

E anche oggi sono sopravvissuta.

Era rimasta.

Era rimasta contrariamente a ogni logica, nonostante ogni idea contraria.
Aveva rifiutato di salire su uno degli autocarri che, attraverso la Strada della Vita, portavano cibo e ripartivano carichi di bambini e civili verso le zone sicure dei dintorni di Mosca, perfino quando, dopo il primo tremendo inverno, era ridotta a poco più di uno scheletro. Aveva rifiutato di farsi portare a Volchov quando i trasporti, dopo la vittoria dell'Armata Rossa, si erano fatti più sicuri, sulla linea ferroviaria ripristinata. Aveva deciso di resistere, e ci era riuscita. Il suo corpo provato dall'inedia e dal gelo si era ripreso, il volto scavato si era riempito nuovamente.

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