Olio Su Tela

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La lama del taglierino incontra una resistenza infinitesimale, penetra, scava la tela con una facilità risibile.
Linee rette, parallele. Gli occhi di Jacqueline, la sua bocca, la linea appena accennata del suo seno perennemente acerbo, il ventre, le gambe.

E la metodicità viene meno. I tagli diventano colpi, fori nati da una furia implacabile, macchie nere che si aprono senza uno schema estetico a guidarle.

Sabina ferma il braccio all'improvviso, il pugno affondato nell'immagine straziata.

La rabbia va scemando, come sempre.

Si pulisce le mani sporche di colore allo straccio che porta appeso alla cintura, allunga il braccio verso il tavolino dove, come di consueto, il bicchiere pieno per metà la attende. Pochi sorsi brucianti nervosi  dolorosi.

Il solito gesto secco con cui scaglia a terra la tela disfatta. Il rumore attutito del legno sul pavimento.

Da capo, ancora una volta.

Mescolare il colore. Quella è la parte più facile.

La sua pelle. Quella miscela inconfondibile e impalpabile, perla ed ebano. Gli occhi, i capelli, quel nero intenso e immenso.

Il pennello che sfiora appena la tela ancora intonsa. Le linee che accenna.
Impossibile riprodurre quel sorriso. Impossibile. Sono solo sprazzi, pennellate incapaci.

La sua figura. Il timido dischiudersi del suo corpo.

La frustrazione di non riuscire, di non poter riprodurre quello che, nella sua mente, sulle sue mani, nei suoi ricordi, è ancora così palpabile. L'ondeggiare confuso del corpo proteso verso di lei, verso la sua bocca. Il suo odore.

E Sabina agita il pennello in un gesto sgraziato, la perla e l'ebano si mescolano, diventano qualcosa di indefinito e indefinibile.

Un altro fallimento.

Un altro, l'ennesimo.

Come non essere stata capace di tenerla vicina. Come aver frapposto quella stupida barriera di sfiducia e timori. Come l'incapacità di chiederle di restare.

La mano, ancora, corre verso il bicchiere.

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