Tre Metri

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Ha spento il motore della macchina ed è rimasta lì, ferma, a lasciarsi inghiottire dalla notte.

La casa è là davanti. Così vicina. Basterebbe poco. Aprire lo sportello, percorrere pochi passi, suonare il campanello. Tre azioni talmente banali da sembrare irritanti.

Buio. Silenzio. Freddo.

Il suo respiro comincia ad appannare i finestrini.

Uno spiraglio di luce pallida scivola fuori dalla sua finestra. Pallida come la luna, una luce argentata e gelida. Deve essere ancora sveglio.

Chissà.

In effetti basterebbe poco anche per tornare indietro. Rimettere in moto. Sparire.

Appoggia la mano sulla chiave, ancora inserita nel cruscotto. Basterebbe poco sul serio.

Una codarda.

Dopo essere arrivata fin lì, non ha il diritto di comportarsi come una codarda.

Chissà perché, poi, quel desiderio improvviso.

Salire in macchina senza dire a Carlo dove sarebbe andata. E ore di strada davanti, percorse cercando di non pensare alla destinazione. Quelle vie familiari, alla fine, quella casa nota.
Tre metri, maledizione. Saranno tre metri. Quattro passi al massimo.
Trattiene il respiro, tira verso di sé la maniglia dello sportello.

Lo scatto meccanico, nel silenzio, sembra un boato. Uno sparo.
Dallo spiraglio entra immediatamente un filo d’aria gelida. Lo respira, lo espira. Si sente lucida, adesso.
Dà un colpetto e apre la portiera. L’aria gelida la travolge, la luce di cortesia si accende.

Ne approfitta per una rapida occhiata nello specchietto. Sì, è stanca. Ma non può farci niente. Non è la stanchezza di una notte di sonno persa, è qualcosa di atavico, che vive nel suo sangue, è stanchezza di vivere.

Si alza in piedi. La fatica del viaggio e della lunga immobilità si trasmette alle sue gambe. Le sente indolenzite, le muove in fretta per sgranchirle. Fa freddo. Forse dovrebbe recuperare la giacca dal sedile posteriore. No, forse è meglio di no.

Magari non la riconoscerà nemmeno. Sono passati già tre anni, del resto. Ha i capelli corti, ora, di un altro colore. Sembra più vecchia. Ha perso qualche chilo.

E se le rispondesse la voce di una donna?

Ecco il pensiero su cui non ha voluto indugiare.

E anche adesso la blocca, la fa fermare proprio prima di allungare la mano verso il campanello.
Potrebbe sempre allontanarsi in fretta, come se fosse un ragazzino che gioca a suonare e scappare, e non una donna di quasi trent’anni. Certo. Potrebbe.

Uno, due, tre.

Protende la mano.

Rimane in attesa. I secondi scorrono lenti, lentissimi, quasi immobili. Passa un’eternità prima di sentire una voce gracchiare attraverso il citofono.

«Chi è?»

La risposta nasce spontanea, automatica. «Sono io.»

Un altro lunghissimo attimo di silenzio. «Io?»

Riprende fiato. Non l’ha riconosciuta. Ma sì, è ovvio, come aveva potuto pensarlo? «Greta.»

Stavolta il silenzio dura a lungo. Non può impedirsi di contarlo mentalmente. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.

«Cosa vuoi?»

Brusco. Non sorpreso, non curioso, solo brusco. Le parole sfuggono dalla sua mente come se non riuscisse a trattenerle. Istintivamente, appoggia una mano sulla griglia di metallo del citofono. «Non lo so.» risponde. Silenzio.

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