Era andata a finire che di Rocco non se n'era saputo più niente. E di Nino neppure.
Erano scappati fuori dal lato sbagliato, lui e Antonio. Ma si erano fatti le gambe e le braccia forti, loro due, a furia di saltare su e giù dal pontile, quando erano ragazzi; una rete di metallo, e calarsi giù da un varco in una parete, per loro era roba da nulla.
Si era sentito qualcosa di molle sotto i piedi, si era reso conto che era erba, che avevano varcato senza nemmeno accorgersene il cemento rugoso della pista d'atletica, e che gli mancava almeno una scarpa, se sentiva il bagnato sulla pelle. C'era ancora un po' di luce, in cielo, anzi, tanta luce, più di quanta ce ne sarebbe stata in piazzale Sirena, fosse stato quello un giorno come gli altri.
Era confuso.
Aveva riconosciuto la sagoma di Antonio, vicina, e poi lontana. E non avrebbe saputo dire in che momento avesse deciso di scalare la rete di metallo, se fosse stato prima o dopo quel senso di non respirare, di galleggiare senza toccare terra, di essere premuto da qualcosa che non poteva controllare. Prima, doveva essere stato. Prima, ma non prima di essersi aggrappato forte allo striscione, al vecchio lenzuolo che avevano colorato di nero a mano, sul tavolo della piccola cucina sulla Nazionale, a casa di Rocco che si era sposato da poco, e aveva i mobili nuovi, e sua moglie che si lamentava perché avrebbero sporcato tutto. Se l'era ritrovato tra le mani, e l'aveva stretto. L'aveva legato forte, l'aveva legato bene. Chissà se lo avevano visto, da casa. Chissà se lo avevano inquadrato le telecamere, mentre dietro tutto si confondeva, e all'improvviso non riusciva nemmeno a capire se fosse disteso o fosse in piedi.
Era davvero ancora giorno. Come fosse possibile, non lo sapeva. E aveva perso di vista Antonio, ma doveva essere facile trovarlo, aveva una maglietta gialla, e non ce n'erano molte in giro. Era tutto bianco e nero, tutto rosso, e la polizia vestita di blu li premeva indietro, li rimandava verso il muro, di nuovo via dall'erba e la sensazione rugosa del cemento sotto la pianta del piede. Ma lui non l'avrebbe risalita, la rete di metallo, ché dietro il muro non si respirava, e si capiva poco.
C'era rumore. Tanto rumore, urla, voci, urla che si sommavano ad altre urla, diventavano un suono unico, un frastuono tale da non poter sentire niente, da non poter vedere niente che non fosse confuso. Aveva male ovunque, e qualcuno lo tirava, ed era qualcuno con una maglia gialla, forse era Antonio.
«E mo'», aveva detto, ma non aveva senso parlare in quel frastuono, le sue parole erano solo rumore che si univa ad altro rumore e che spariva in qualcosa di più grande, di immenso, di enorme.
Ma era di nuovo sull'erba, e nessuno aveva più detto niente. Era sull'erba, e l'erba era fresca, la sentiva premere sotto la pianta del piede e faceva quasi male. Chissà dov'era finita, la scarpa. Chissà com'era possibile perdere una scarpa. Era sull'erba, e c'era Antonio. E Antonio contemplava il punto da cui erano venuti via – uno strano gioco di prospettiva, a pensarla così, essere nel campo e guardare il punto da cui prima guardavano il campo – senza parole, come lui. O con parole inutili che sarebbero state divorate dal rumore, da quel frastuono di parole e di urla inutili.
Li avevano fatti spostare di nuovo, ma questa volta senza botte, senza altri colpi, senza spinte. C'era tanta gente. E davanti a loro lo spettacolo incredibile delle bandiere che sventolavano, mosse con violenza dalla lunga attesa, dalla frustrazione di vedere e non poter fare, e da quella di fare e non poter vedere.
C'era quel bambino, prima, proprio lì accanto. E pensare che gli era sembrato perfino bello, quel momento, il sole che ancora gli baciava la testa – era un sole pallido, non quello che bruciava la pelle quando si mettevano a giocare a pallone su quel lembo di spiaggia libera vicino alla foce dell'Alento, lui e Rocco e Antonio e Nino. Era stata una bella giornata. La macchina parcheggiata nel piazzale di Santa Liberata, il viaggio sulla Panda di Rocco fino a Chieti, poi con gli altri all'aeroporto, lui che l'aereo non l'aveva mai preso. Tutto bello. E quel bambino, pure a quel bambino doveva sembrare tutto bello. Ce n'erano tanti, di bambini, e di ragazzini, e di anziani. E a Nino era piaciuto, ché lui era interista, ed era venuto per la festa, più che per la coppa.
Poi s'era ritrovato davanti perfino Scirea, e lo aveva visto fare grossi gesti e dire tante parole, ma il rumore s'era mangiato pure quelle. E non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, se non perché era buio, ed era freddo. E aveva un piede scalzo, che gli faceva male.
Ma si era riuscito a tirare su da quel varco, aveva scavalcato la rete metallica, si era tenuto stretto al vecchio lenzuolo e aveva toccato terra; questo, mentre la parete di cemento accanto a lui sembrava farsi molle, sembrava distendersi e dilatarsi dietro la spinta di tutte quelle persone che non sapevano dove fuggire. Lui no, e Antonio dietro, giù e poi sulla pista e sull'erba, ma non avrebbe saputo dire quando fosse successo. Sembrava già una cosa del passato, una cosa successa in sogno. Aveva visto la polizia a cavallo, aveva visto qualcuno tirare fuori le persone da terra, e com'era possibile che si fossero disposte a strati, che ci fosse stato qualcuno sopra e qualcuno sotto. E altre persone portate a spalla sulle transenne riverse, uno spettacolo orribile e inutile, uomini e donne con le braccia che pendevano e le gambe lasse, e dietro, sullo sfondo, altra gente vestita di rosso che lanciava pietre. E ora gli sembrava di ricordarsele, quelle pietre, di aver visto qualcuno con la testa che sanguinava e di aver riconosciuto il cemento che si sgretolava tra le stecche grezze di ferro.
Li avevano fatti uscire.
Impossibile dire quando avesse varcato l'ingresso. Ore, giorni, secoli. Ricordava i cinque gendarmi che li guardavano passare, e ricordava anche di aver riso con Rocco, ché dietro l'angolo aveva visto pure lui quelli che già erano dentro arrampicarsi sul muro per lanciare i biglietti a chi ancora era fuori. Tanta gente, tutta ad ammucchiarsi sui gradoni e a raccattare briciole di cemento, loro e quelli con le bandiere crociate e le maglie rosse divisi solo da una mezza transenna e una rete di metallo. C'era già rumore.
Fuori no. Fuori c'era un rumore diverso, il caos che arrivava ovattato, spaccato dalle pareti grigie, le urla, persone che chiamavano. Antonio che chiamava, che cercava, ma di Rocco e di Nino non se n'era saputo più nulla, più nulla davvero.
«Quell' se n'ha ite a vede' la partite», aveva urlato Antonio. «Sono andati a vedersi la partita!», aveva urlato, più forte, più lento, certo perché credeva che non avesse capito.
C'erano le ambulanze, e altre persone vestite di bianco, con la croce rossa sulla schiena. Qualcuno doveva essersi fatto male. Qualcuno doveva aver ritrovato la sua scarpa, da qualche parte. C'erano delle persone distese, abbandonate sul cemento. Sembravano morte.
Erano tornati dentro pure loro, alla fine. Nessuno controllava più niente. Una fila di poliziotti s'era distesa lungo i bordi del campo, un elmetto rivolto verso di loro, un altro verso il campo. Le bandiere continuavano a sventolare, rosse da un lato, bianche e nere dall'altro. E un angolo, un angolo soltanto, vuoto. Vuoto a metà, senza la calca delle persone, invaso dalle macchie colorate di cose lasciate alle spalle. Cose. Anche la sua scarpa doveva essere lì, da qualche parte, una macchia in mezzo ad altre macchie. Una macchia in una voragine, in uno spazio sventrato.
E se lo sentiva dentro pure lui, quel vuoto. Aveva visto di nuovo la gente riversarsi sull'erba, ma senza l'ansia di quando lui ci si era ritrovato. Aveva visto il fumo, aveva sentito le urla, aveva visto Platini – e quello era proprio lui, era proprio Platini – che sollevava la coppa. Ma era andata a finire che di Rocco e di Nino non se n'era saputo più nulla.
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Cabaret
Short StoryIn alcuni dialetti, il cabaret è il vassoio di pasticcini. E questa raccolta è una varietà di storie, di lunghezze e gusti diversi: racconti storici, romantici, slice of life, horror e altre piccole cose.