L'albero solitario

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L'aria sapeva di cicca già masticata. Il vento gliela sputava in bocca, attraverso la finestra, gli lasciava una sensazione strana sui denti.

«Aspetti tutta la settimana che sia domenica, e poi finisce in un attimo», stava dicendo Steve, dietro di lui. Steve, o forse Steph. Non l'aveva mai capito. Non l'avrebbe mai capito.

«Eh», aveva risposto. Non si poteva definire una vera risposta. A Steve non interessava, non interessava mai.

«Odio il vento da sud, porta il tanfo della discarica.»

«Eh.»

Per lui non era importante. Non che fosse domenica, non che il vento venisse da sud. Si sarebbe dovuto concentrare, e tanto, per trovare qualcosa che avesse ancora rilevanza. Niente di quello che aveva lì sotto lo sguardo, di sicuro. Oltre le masse scure che il sole lasciava in ombra, le fronde dell'unico albero ondeggiavano, si piegavano, si contorcevano. Foglie. Primavera. Non era importante nemmeno quello.

Chissà, si era detto. E non aveva aggiunto altro, nemmeno a se stesso, perché quei pensieri lo confondevano. La condanna delle parole, essere costretto a pensarle e a vivere con la conseguenza di quei pensieri. Una volta ci si perdeva, dietro a quelle cose. Quando era un ragazzo, forse, quando aveva avuto la sensazione che ci fosse ancora qualcosa che valesse la pena di credere. Una cosa del genere, almeno.

«Nove giorni», stava dicendo ancora Steve. E forse aveva detto altro, in quei secondi che gli erano sembrati di silenzio, ma non l'aveva ascoltato. Non lo ascoltava mai sul serio.

«Eh.»

Nove giorni, diceva Steve. E nove giorni erano ancora un tempo quantificabile, una quantità possibile da contenere, da enumerare, da suddividere in frammenti abbastanza piccoli da poter scorrere in una clessidra fatta di luce e di buio, di pasti e di abitudini. Una quantità tollerabile. Lui no, lui aveva perso il conto. E chissà perché il tempo continuava ad annodarsi, nella sua memoria e nella sua mente, chissà perché aveva smesso di contarlo, chissà se lo aveva mai contato. Doveva essere così, l'immortalità. Doveva somigliarci, almeno.

«Viene Dana, a prendermi, con il bambino

Lo diceva con aria d'importanza, Steve. Con l'espressione compiaciuta. La sentiva anche se non lo guardava, anche se non riusciva a distogliere lo sguardo dalle fronde dell'albero, laggiù, così prese a schiaffeggiare il niente. Chissà se gli alberi hanno il senso del tempo, si era chiesto. E si era fermato subito, per non perdere l'abitudine a frenare i pensieri.

«È una bella cosa», aveva detto.

«Dici che sono troppi, cinque anni?»

Che domande, quelle di Steve. Eppure doveva saperlo, Steve o Steph, Steph o Steve. Una delle due, sicuro. «Per fare cosa?»

«Per il bambino. Per recuperare il tempo perduto.»

Chissà, si era chiesto. Chissà se esisteva un modo per calcolare il tempo perduto. Conteggiarlo, chiederlo indietro. A chi, poi, a quale titolo. Al bambino di Steve, che nemmeno sapeva quanti anni avesse. Almeno cinque, certo, abbastanza da avere un padre che, nel migliore dei casi, nemmeno aveva conosciuto. Nel peggiore, lo aveva odiato. O qualcosa del genere.

«No, non sono troppi», aveva detto, con il suo migliore tono da bugia. Non era un granché, il suo tono da bugia. Ma non gli interessava. Il vento si stava alzando, gli sbuffi di cicca masticata gli arrivavano sempre più violenti sul viso. La discarica. Non era una cosa così brutta, poi, la discarica. Gli scarti vanno sistemati da qualche parte. Gli esseri umani passano la loro vita ad accumulare scarti, fino a quando non diventano anche loro parte dello schifo che hanno contribuito a creare. Economia circolare.

«Tu, niente?»

«Io niente», aveva risposto. Tono sollevato. Una piccola verità in un'esistenza da scarto.

Niente. Nessun motivo abbastanza valido da fargli guardare quello stupido inutile albero con altri occhi. E chissà dov'era, quell'albero. In un cortile, ultimo baluardo della natura, a fare ombra a qualcosa. Uno strumento, anche quello, come tutti gli strumenti.

«Mi dispiace.»

Non dispiacerti, aveva pensato. L'aveva detto a se stesso, più che a Steve. E chissà quando aveva cominciato ad avere bisogno degli incoraggiamenti. Gli era sempre scivolato tutto addosso, da sempre. Una cosa del genere. Magari un tempo non si sarebbe messo alla finestra a guardare un unico albero. Ma anche quel tempo doveva essere finito da qualche parte, nel calderone delle cose perse, di quelle che non sarebbero mai state restituite.

«Avevo giurato a me stesso che non ci avrei più messo piede, qua dentro», stava dicendo Steve. «Ma ci vengo, per te. Una di queste domeniche.»

Per un attimo, quell'idea gli era perfino piaciuta. Dare un senso al tempo, scandire il nulla con l'attesa di qualcosa. Un metronomo del vuoto, un orologio, qualcosa che avesse significato, un significato qualunque. O qualcosa del genere. Poi, però, gli era venuto da ridere. E non rideva quasi mai.

«Non pensarci nemmeno», aveva detto. E il tono era stato quello meno gentile, quello che, non avrebbe saputo dire quando, aveva preso il posto degli altri. Non che fosse davvero importante, nemmeno quello.

«Non mi dimentico degli amici», aveva detto Steve.

«Io sì.»

Era vero. Si dimenticava di tutto. Doveva essersi dimenticato anche di cosa avesse portato quell'idiota di Steve a considerarlo un amico, lui, lui a cui di Steve non era mai importato niente. Nove giorni, e poi si sarebbe portato via il suo ricordo, avrebbe giocato a nascondino per un po', avrebbe finito per rinchiuderlo in un posto buio dove non avrebbe più guardato. Succede sempre così. Agli altri. A lui, a lui no. Lui c'era dentro, nei posti bui, ci era dentro fino al collo. O qualcosa del genere.

Chissà, si era detto. Chissà se certe cose sarebbero mai tornate ad avere un significato. O chissà se, invece, erano destinate a scomparire, inghiottite dalla certezza della discarica, a sud, e di quell'albero da solo, preso a pugni dal vento.

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