Turchese

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Non ho mai capito perché continui a frequentare il Centro per l'Autismo – sì, con le maiuscole, così come è scritto sull'insegna affissa sulla porta dello studio.

Forse, all'inizio, era qualcosa di molto simile alla riconoscenza.

Capita abbastanza spesso che le persone della mia generazione ricevano una diagnosi di autismo ad alto funzionamento da adulti. Quando ero bambina, il criterio principale per la diagnosi era lo scarso rendimento scolastico. Le mie pagelle, fin dalla prima elementare, avevano voti altissimi e vaghi accenni sulle mie difficoltà nella socializzazione. Ma nessuno se ne è mai preoccupato: né gli insegnanti, del resto abbastanza soddisfatti di me, né i miei genitori, perché il mio essere strana mi rendeva, tutto sommato, poco problematica.

Sono cresciuta con la consapevolezza della mia diversità, anche se non sapevo esprimerla a parole. Nemmeno come concetto, a dire il vero. Come avrei potuto capire le differenze tra me e gli altri? Avevo soltanto il mio punto di vista, solo il mio sentire.

Ho incontrato la dottoressa Andriano cinque anni fa. Ero un caso molto tipico, aveva detto. Ed era bastato qualche test a confermare la sua teoria: sindrome di Asperger. Parole che, per me, significavano tutto e niente. Ne avevo capito il senso reale soltanto quando, al Centro, avevo conosciuto altre persone come me. È stato in quel momento che il mio essere strana è diventato essere normale. Ero io, sono io, e devo essere giusta così. Immagino che queste parole abbiano poco senso, ma per me è stata una vera illuminazione.

Dopo qualche anno, la motivazione è venuta meno, per buona parte a causa dei genitori di alcuni bambini seguiti dal centro, così preoccupati di sapere se il loro figlio avrà una vita normale da ignorare la mia voglia di non essere un test di laboratorio.

«Ciao, Luna. Come andiamo?»

La dottoressa Andriano mi accoglie sulla porta e mi indica con un cenno della testa le sedie disposte in cerchio nella stanza.

Non sopporto il suo modo di rivolgersi a me con la prima persona plurale. Non l'ho mai sopportato. «Bene, direi».

Continuo a dimenticare che le parole con cui mi accoglie sono solo una formula di cortesia, e che non ascolta mai la risposta.

L'unica già presente è Laura. Mi guarda e picchietta con una mano sulla sedia accanto alla sua, per invitarmi a sedermi.

«Guarda», mi dice.

Si scopre il polso e mi mostra un ciondolo a forma di coda di pesce. Le sirene sono la sua passione. Fa dondolare e tintinnare il ciondolo contro il braccialetto.

«Hai visto? Hai sentito? Suona bene. Come il canto delle sirene».

«Suona bene», confermo.

«E ho anche una nuova coda. La quattordicesima spesa bene», dice ancora. E tira fuori in tutta fretta il telefono per mostrarmi le fotografie che ha scattato al suo ultimo vestito da sirena. Ma non si aspetta che commenti con qualche parola di circostanza, perché, come me, non dà alcun valore ai convenevoli.

«L'ho fatta fare da una signora inglese su misura», mi dice. «Ho anche chiamato un fotografo vero, sai, per mettere qualche foto sul mio blog». Ripone il telefono nella borsetta. «Sai che Riccardo mi ha chiamata, ieri?» mi chiede all'improvviso, come riscossa dai suoi pensieri piacevoli.

«Oh».

«E sai cosa gli ho detto? Mi è venuto in mente quello che aveva detto la dottoressa l'altra volta, quella cosa sul rispetto di noi stessi. E così gli ho risposto che non gli permetterò più di mancarmi di rispetto».

«È una cosa bellissima».

«Uguali, noi, eh?»

Sì. Molto simili, se non uguali. Lei aveva Riccardo, che le impediva di essere una sirena. Io avevo Lorenzo, che continuava a cercare di trasformarmi in una persona normale. Non eravamo libere di essere noi stesse.

Il bisogno, forse, di farsi proteggere. Talmente forte da accettare di perdere noi stesse, una parte di noi, in cambio di uno scudo effimero. Perché nella storia di molti Asperger ci sono violenze e abusi, crudeltà e sofferenze: la brutta realtà di chi si trova ad affrontare un mondo che non sa interpretare, pieno di malvagità dove sappiamo vedere solo l'apparenza gentile delle cose.

«Devi dirlo anche a Lorenzo», continua. «Mi raccomando».

Ha ragione. Dovrei dirglielo, se mi chiamasse. Ma non mi chiamerà.

Il nostro ultimo scambio è stato uno scatolone appoggiato davanti alla porta di casa. La mia vecchia pentola a pressione, che evidentemente doveva essere finita tra le sue cose. Avevo il terrore che una mia telefonata sfociasse in un'altra discussione, per cui mi sono limitata a prendere la scatola e gettarla nel primo cassonetto. Non credo di aver ringraziato. Non penso che ci fosse motivo di ringraziare. Alla sua nuova compagna non deve far piacere ritrovarsi cose di mia proprietà dentro casa. A me non fa piacere trovare nella mia cose che sono passate dalla sua. Lo trovo equo.

Avrei dovuto dirglielo a suo tempo, quando magari le mie parole sarebbero servite a qualcosa. Ma non ero ancora così consapevole di me stessa. Oppure ero ancora sotto il suo giogo, non saprei. E sarebbe banale dire che, quando se n'è andato, ho finalmente scoperto chi fossi. Ne sento ancora la mancanza. Tanto, troppo. Al punto di odiare la possibilità che i miei oggetti siano impregnati dell'odore di lei.

«Bisogna trovare uno come noi», continua Laura. «I neurotipici per noi non sono abbastanza».

«Non sono abbastanza pazienti, intendi».

Torna a concentrare la sua attenzione sul ciondolo a forma di coda di pesce. «Razzisti, sono».

«Non generalizzare».

«Hai ragione. Generalizzare è da neurotipici».

Nel frattempo, le sedie intorno a noi si sono riempite. La dottoressa Andriano chiude la porta e si siede al suo posto, aspettando in silenzio che il brusio si plachi.

«Che facciamo, possiamo cominciare?», chiede.

Un'altra domanda retorica.

Laura, alla mia destra, unisce i piedi e comincia a trascinarli ritmicamente sul pavimento, avanti e indietro. Non è più Laura, adesso: è una bellissima sirena, libera nell'oceano.

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