Acciaio

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Sono arrivata troppo presto, forse.

O forse no. Nella sala c'è un terribile odore di stantio.

Spalanco le finestre, lascio la porta aperta. Sono diventata esperta, ormai, in questo genere di cose. Mettere in ordine le sedie, ripulire il grosso tavolo in fondo, stendere una tovaglia rossa - non ho mai capito perché si debbano sempre usare tovaglie rosse per queste cose - e il microfono. Bottigliette d'acqua, perché a chi parla viene sempre sete. Sistemare il vino e i bicchieri in modo che il tutto abbia la parvenza di un allestimento professionale.

L'ordine geometrico mi rilassa. Anche il lavoro manuale, quello senza pensieri. Pulire, riordinare, trovare il giusto posto alle cose. Pensare alle minuzie, quelle che poi non nota mai nessuno, e osservare come si siano dimostrate funzionali, proprio perché non le ha notate nessuno. È un'attività molto introspettiva, a pensarci.

È bello che ti dedichi al volontariato, dice la dottoressa Andriano. Non ho mai capito il senso di queste parole. È un po' come se la società avesse riversato su tutto ciò che non è rivolto verso il semplice accumulo di denaro una specie di ammirazione morale. Entrano in gioco altri meccanismi. La distrazione, l'idea di essere utili a qualcosa, l'appagamento intimo del collaborare a un progetto comune. Credo che sia quella, soltanto quella, la questione. L'altruismo, così come viene descritto, è un concetto che non sono mai riuscita a comprendere.

Tutte stronzate da neurotipici, dice Laura. È la sua opinione pressoché universale. Si inventano tanti termini perché hanno bisogno di definire la normalità. Si torna ancora alla tassonomia. Forse ha ragione. Forse è soltanto un tentativo di spiegare la morale, o l'etica.

***

«Vi fermate per un bicchiere?», chiede Franco.

È buio. È notte, a dire il vero.

Non pensavo che l'incontro sarebbe finito così tardi.

C'era confusione. Tanta confusione. Credo che il "seguirà buffet" scritto in fondo alla locandina dell'incontro abbia attirato più persone del previsto. Abbiamo riempito bicchieri e piattini per tutto il tempo. E poi li abbiamo raccolti, quando tutti sono andati via lasciando sparpagliati avanzi e rifiuti. Un lavoro ciclico. Alessandra sta ancora finendo di lavare il pavimento. Stefano impila le ultime sedie.

«Qui?», chiedo.

«Sì. O volevate andare a cena?»

A dire il vero, sono stanca. E ho la nausea dopo aver dovuto toccare i piatti usati dagli altri. Con i guanti, sì, e senza guardare. Ma ho la nausea comunque.

«Dai, andiamo a prenderci una pizza», dice Alessandra. «Ce la siamo meritata».

«Finisco io i pavimenti», dico. «Voi andate pure».

«Non vieni?»

«Non ho molta fame».

Sento gli occhi di Stefano appoggiarsi su di me. «Stasera passo anch'io», dice. «Non ho voglia di andarmi a mettere in mezzo ad altra confusione».

Alessandra appoggia la scopa alla parete. «Sicuri?»

«Sì, certo», dice Stefano. «Finiamo noi di sistemare».

Restiamo soli. È una solitudine che non mi piace, una solitudine manipolata, che non ho cercato e non ho richiesto. Recupero la scopa e cerco di concentrarmi sul pavimento.

Non ti avvicinare.

«Ce lo beviamo noi, quel bicchiere?», chiede Stefano.

È distante. Dall'altra parte della sala. Mi guarda, non sembra avere intenzione di avvicinarsi. Non ti avvicinare. Forse aspetta che io gli risponda. Credo di non averlo fatto. Non in maniera sensata, almeno. Ma lo vedo recuperare una delle bottiglie di vino rimaste a metà e cominciare a riempire due bicchieri di plastica.

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