Il salone è quasi freddo.
Non ho molta fame, a dire il vero. E non riesco nemmeno a capire se sia davvero una sensazione di leggero malessere, come sembra, o qualcosa di diverso.
Tempo. C'è bisogno di tempo, come sempre. Abituarsi al ritmo a cui la realtà scorre. Abituarsi all'odore della polvere. Alla polvere accumulata sui teli che coprono i vecchi mobili e trasformano la sala in un'altra sala. Una cosa in un'altra cosa.
Stefano rispetta il mio silenzio. O forse è anche una sua esigenza. Osservo i rebbi della sua forchetta disegnare piccoli giochi di linee nel piatto. Mescola, gira, rigira. Svogliato, anche lui, forse. O distratto, magari. Perso nei suoi pensieri. Ma i suoi occhi sono fissi su di me.
«Allora?», chiede, all'improvviso. Il silenzio gli ha arrochito la voce.
D'istinto, abbasso lo sguardo sul piatto che ho davanti.
«Allora cosa?»
«È una domanda tanto per fare. Una di quelle che si fanno per rompere il ghiaccio».
«Sai che ho pensato per anni che fosse davvero così?»
«Così cosa?»
«Che il ghiaccio si rompesse davvero. Si spaccasse, intendo».
Ridacchia. Sento la forchetta tintinnare contro il piatto. «Non ha molto senso, a pensarci bene».
«Tu?»
«Io cosa?»
«Tu, allora?»
Rimane per un attimo in silenzio. «Preferisci se non parliamo?», mi chiede.
«Penso di no».
«Pensi?»
«Mi sento scombussolata. Tante cose da mettere in ordine nella testa».
«Sì, anch'io. Anch'io, un po'».
Lo sento muoversi. La sedia scricchiola, si sposta all'indietro. Sollevo lo sguardo.
Si alza in piedi. Mi guarda. Mi guarda fisso.
Lo vedo stendere un braccio verso di me, allungare in avanti la mano.
«Ti va?»
Protendo le dita in avanti. Forse dovrei chiedergli cosa, cosa desidera. Quale conferma vuole. Ma mi va, di sfiorarlo. Mi va di sentire la sua pelle, mi va di percepirlo.
La sua presa è salda. Ho la sensazione che mi stia tirando a sé. Mi alzo anch'io, un altro scricchiolio della sedia, un movimento sgraziato.
Sorride. «Ti sto invitando a ballare», dice.
«Non so ballare».
«Nemmeno io. Te l'ho detto, sono come un frigorifero».
«E perché vuoi ballare?»
«Così. Perché ogni tanto si possono fare delle cose mai fatte prima».
«Questo è vero».
«E si può fare qualcosa per rendere felice questo posto. Era una sala da ballo, ricordi?»
«Sì».
«Magari nemmeno a lei piacciono le cose che diventano altre cose. Magari non le piace essere la mia sala da pranzo».
Mi appoggia le mani intorno alla vita, poi sulla schiena. Poso la testa sul suo petto. Sento il suo cuore, sotto la maglia. Lento, ritmico, pacato.
«Non c'è la musica».
«Possiamo immaginarla».
Ondeggiamo. Non è un ballo. Non sappiamo ballare, non nel vero senso della parola. È più un movimento sgraziato, appoggiato al silenzio di una musica inesistente. Sgraziato, sì. Ma sincrono. E può bastare. Tutto sommato, può bastare.
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Blu
RomanceRicominciare non è mai facile. Una piccola storia d'amore che sfiora il meraviglioso e complesso mondo dell'autismo.