Foglia Di Tè

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A me i mostri non fanno paura, mi aveva detto.

I mostri mi fanno incazzare, ma non mi fanno paura, mi aveva detto.

Eravamo a casa dei suoi genitori, chiusi nella sua stanza. Seduti sul suo letto a una debita distanza l'uno dall'altra, ascoltavamo della musica. Non ricordo cosa. Musica che piaceva a lui, suppongo. Quella che amava spiegarmi e che io non conoscevo.

Era bello. Lo guardavo e lo trovavo bello. Ero lì solo per lui, del resto. Avevo preso un treno – viaggiare mi piace, mi è sempre piaciuto – soltanto per rivederlo.

Mi stava corteggiando, suppongo. Lo suppongo adesso, intendo, perché allora proprio non lo immaginavo. Lui mi interessava. Sapeva parlare. Diceva sempre le cose giuste. Non giudicava, Lorenzo.

Non ricordo in quale momento preciso si sia preso il mostro.

Ricordo che mi ascoltava, mentre gli raccontavo, e non diceva nulla. Io gli parlavo, e le poche parole, un po' alla volta, erano diventate un ruscello di parole, poi una cascata di parole, poi un oceano di parole. E lui continuava a non dire nulla. Nemmeno mi guardava. Aveva lo sguardo fisso in avanti, il viso contratto in una smorfia che non avrei mai saputo come decifrare.

Poi avevo visto una lacrima scendergli svelta lungo la guancia. Una. Lunga, sulla sua pelle. Una lunga scia luminosa. Io avevo smesso di parlare, e lui si era voltato verso di me. Soltanto in quel momento mi ero accorta di essermi rannicchiata contro il muro, di avere le ginocchia premute contro il petto fino al punto di sentire dolore.

Era stata una liberazione. Una specie di guarigione. Avevo lasciato andare una parte di me, e mi aveva fatto bene. Era meno pesante. Mi sembrava quasi di potermene sbarazzare definitivamente, di quella cosa. Poter essere normale.

Lorenzo aveva ucciso il mostro. Era quello che sentivo. Sono serviti anni per capire che il mostro era ancora vivo, anche se chiuso in un contenitore a tenuta stagna. Gli incubi c'erano ancora, loro sì. E le notti insonni. Ma sembrava tutto diverso. Era come se fossi finalmente riuscita a seppellire la bambina che ero stata. Un funerale poco sfarzoso, tra l'altro, in sordina, passato quasi inosservato.

Un sarcofago di cemento armato non dura in eterno. La radioattività filtra attraverso le crepe nella struttura, a mano a mano che questa invecchia.

Il tempo di dimezzamento dell'uranio supera i quattro miliardi di anni.

Acqua tiepida, stavolta, e niente spugna. Ho già abbastanza ferite da curare.

***

Forse dovrei chiamarlo.

Forse.

La nebbia dell'alba comincia a diradarsi, rendendo a mano a mano più limpido il profilo delle montagne e svelando l'acqua scura del lago. I miei passi suonano ritmici lungo il sentiero. Una buona cadenza, rapida, scandita dal respiro. L'umidità mi attacca addosso i capelli e i vestiti. Cerco di correre più forte, perché la corsa si mangia i pensieri, e vorrei riuscire a smettere di pensare.

No. Non spero in un suo ripensamento. È felice, adesso, o almeno credo. Ha fatto quello che riteneva giusto, e non posso essere io il giudice delle sue scelte. Vorrei soltanto ascoltare la sua voce. Sentirlo parlare e cercare di convincere me stessa di essere in grado di sopravvivere anche da sola. Anche senza di lui. O qualcosa del genere.

Accelero ancora. Il respiro si spezza, le gambe si fanno subito più pesanti. Voglio correre fino ad anestetizzare i pensieri. Voglio correre fino ad annullare i desideri.

***

Non funziona la corsa, né l'ordine matematico del lavoro. L'idea si ingigantisce seguendo il percorso apparente del sole nel cielo, da oriente a occidente. Era un granello durante la notte, una noce al mattino, e, ben prima che la giornata iniziasse a declinare, aveva già il peso di un grosso sasso.

Ho la sensazione che sia una massa insostenibile, adesso. E questo nonostante parlare al telefono proprio non mi piaccia, e lo limiti alle questioni essenziali. Ma, del resto, questa regola non scritta, per Lorenzo, non è mai valsa.

E forse è per questo che esco dal lavoro con il telefono in mano.

Meglio sulla strada per tornare a casa. Meglio in un posto dove posso tenere le emozioni sotto controllo, almeno in parte, concentrata su qualcosa che non sia l'autocommiserazione. Le mani mi tremano, un fremito appena percepibile.

Il lungo silenzio tra la composizione del numero e il primo squillo mi causa un'ansia intollerabile. Dita sudate, schiena sudata. Smetto perfino di camminare.

Uno squillo.

Sono certa che non risponderà. Non ha nulla da dirmi, del resto. Non ha alcuna responsabilità nei miei confronti.

Due squilli.

E io non ho pensato a cosa dirgli. Non ho pianificato il discorso. E questo implicherà lunghi silenzi, pieni di parole che non riesco a dire; tramuterà qualsiasi tentativo di comunicazione in un goffo accennare e smozzicare.

Tre squilli.

Ne manca solo uno prima che io possa riattaccare. Solo uno. Un altro intervallo eterno, silenzio spezzato solo dal pulsare del cuore nelle orecchie.

«Pronto?»

Ho sbagliato. Non sono fatta per certe cose, per le decisioni dettate dai desideri e non pianificate. Non sono in grado di sostenere una conversazione del genere, e adesso ne ho la certezza.

È difficile parlare al telefono. Ancora più difficile che parlare di persona. Non ci sono le cose che nel tempo ho imparato a riconoscere. Niente labbra che sorridono o si tendono, niente mani che gesticolano – cose faticose da interpretare, sì, ma che almeno dovrebbero avere un senso. C'è solo la voce, e la voce ha sempre lo stesso suono, per me.

Non riesco a fare nulla. Tremo come se avessi freddo. Forse potrei riattaccare e fare finta di niente. Potrei dire di averlo chiamato per sbaglio, di non essermene resa conto. Ma stento a ricordare cosa dovrei fare. Le parole da usare, i gesti da compiere.

«Luna?», lo sento dire.

«Luna?», dice un'altra voce, più distante dal microfono. Una donna. Suppongo sia lei.

«Tutto bene?»

Lei non dice nulla, stavolta.

«Sì», mormoro. «Scusa».

«Come?»

«Ho sbagliato. Scusa».

«Ha sbagliato numero», dice lui.

«Ha sbagliato numero?», chiede ancora lei.

Sposto il telefono dall'orecchio e chiudo la conversazione. Le dita mi tremano al punto da faticare a premere il pulsante.

Non ho salutato. A Lorenzo non piace quando riattacco senza salutare. Lo ha sempre trovato offensivo. Non riattaccarmi in faccia. Ma ci penso soltanto adesso, e suppongo sia tardi.

«Ciao», dico. È un sussurro, e ormai lui non può più sentirmi. Ma mi fa stare meglio dirlo. Attenua il senso di colpa. Scatena altri pensieri, però.

Non voglio parlare di colpa.

È un circolo vizioso.

Accelero il passo. Devo assolutamente tornare a casa. Devo togliermi le scarpe. Devo recuperare la dimensione elementare di me stessa. Prima che sia tardi. Prima che il nocciolo fonda e sversi il veleno ovunque. Prima che qualsiasi tentativo di contenimento si dimostri inutile.

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