Savoia

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«Eh?»

Mi costringo a sollevare gli occhi dal piatto.

«Luna?»

«Sì?»

«Sempre nel tuo mondo, eh?»

«Eh».

La parte più bella, ha detto.

Una bellezza che mi sfugge. Un assordante rumore di fondo. Luci troppo forti. Alessandra che cerca in tutti i modi di spingermi a fare conversazione. Una conversazione che non desidero e per la quale sento di non avere abbastanza forza, adesso.

Erano ancora al tavolo, Alessandra e Franco, quando siamo entrati. E la mano di Stefano è immediatamente scivolata via dalla mia, la sua presa ha cambiato natura, è diventata un tocco appena accennato sulla spalla. Non mi piacciono le cose che diventano altre cose. Non mi piacciono le mani che non hanno più il coraggio di stringere.

«Quindi?»

«Cosa?»

«Non mi stavi a sentire».

Non la stavo ascoltando. Vero. «No». Mi rendo conto solo di sfuggita di aver detto la verità quando invece avrei dovuto mentire. Ma non penso che sarei stata in grado di farlo.

«Che hai, stasera?»

«Sono stanca», dico. Una risposta facile, che in genere non chiama altre domande.

E lo sono davvero. Ho la sensazione che ogni singola emozione della giornata si rovesci su di me, fino quasi a soffocarmi. La confusione, la tensione, quel reticolo annodato di sensazioni che mi ha inondata. E il rumore. Non aiuta, il rumore.

Forse non sarei dovuta venire. Mi sarei dovuta fidare del mio istinto, del mio desiderio di raccogliermi e accogliere le novità in un modo a me comprensibile. Forse. O forse avevo troppa voglia di tenere stretta quella mano, di non lasciarla andare. Voglia, o bisogno. E allora era un sacrificio necessario. Un sacrificio desiderato.

«Eh, è stata una giornata impegnativa», dice Franco. «Una serata decisamente buona, direi».

Non sono in grado di intervenire nel discorso. Li sento commentare l'incontro, ma non riesco a ricordare una sola parola detta durante il pomeriggio. Ricordo il rumore, sì, il caos e lo stordimento. Ricordo di aver passato tempo a impilare i piatti di plastica l'uno sull'altro, per ottenere una torre perfettamente simmetrica. La simmetria, quella la ricordo. Era una cosa su cui concentrarmi, una cosa in grado di salvarmi dall'aria satura del calore di troppi corpi.

«Tu che dici, eh?». Vedo lo sguardo di Alessandra fermo su di me.

«Io?», chiedo.

«Tu».

«Non saprei».

So solo che vorrei fuggire. Vorrei essere altrove, in un altro posto qualunque. Vorrei che ci fosse silenzio, che avessi lo spazio e il tempo che servono per respirare al mio ritmo, seguendo la mia natura. E vorrei anche che il mio viso fosse in grado di esprimere quello che sento, il disagio che provo, il desiderio di allontanarmi.

«Come?»

Abbasso gli occhi a cercare i pezzi di pizza ancora sparpagliati nel mio piatto. Sono ordinati, tagliati con cura. Formano qualcosa che somiglia a un rettangolo. Più a un trapezio, forse, perché uno dei lati è appena troppo allungato. Ma le pizze non sono mai perfettamente circolari, del resto. Avverto una variazione nel rumore di fondo. La voce di Stefano, che fino a quel momento si è alternata a quella di Franco in un discorso che non sono stata in grado di seguire, sparisce. Una variazione significativa. Un rumore che smette di essere un rumore.

«Tutto», dico, e ho la sensazione di aver dato la risposta sbagliata, ma non mi viene in mente altro. Nulla di sufficientemente generico da farmi sembrare presente.

Il tocco improvviso mi fa sobbalzare. Mi ritraggo d'istinto, prima di notare lo sguardo di Stefano. Mi osserva, il viso serio. E mi rendo conto che ha allungato una mano verso di me, sotto il tavolo. Mi rilasso, lascio che trovi le mie dita, che le stringa.

«Scusami», dice, a voce bassa.

«Eh?», interviene Alessandra.

«Niente», risponde Stefano. «Luna mi aveva detto di essere stanca, ho insistito io per la cena».

«E invece hai fatto bene, le fa bene uscire». Alessandra torna a voltarsi verso di me. «Ti fa bene uscire, no?»

No, vorrei dirle. Non mi fa bene. Soprattutto quando sono così confusa. «Può darsi», rispondo.

La presa di Stefano si fa più decisa, più salda. Sembra una zattera in un mare in tempesta. Mi ci aggrappo. La sua pelle è liscia, al tatto. Liscia, con qualche asperità all'altezza delle nocche, più ruvida verso il polso. Un'altra sensazione che voglio ricordare, che voglio imparare.

«Pensi di riuscire a finirla, la pizza?», mi chiede Stefano.

No. Non penso. Si rovinerebbe la simmetria. E penso che sia già fredda. Non mi piace la pizza fredda. Non mi piace la mancanza di simmetria. Scuoto appena la testa.

«Andiamo?»

Mi guarda, ancora. Andiamo. Un bel verbo. Prima persona plurale. Mi viene in mente che non ricordo più il nome della popolazione tribale che ha, tra gli altri, un pronome personale duale: noi due. Un bel pensiero. Una parola piena di sfumature.

«Sì».

«Noi andiamo», dice ancora, a voce più alta.

Noi. Noi due.

Le sue dita tornano a separarsi dalle mie. Stringo forte gli occhi. Sono solo pochi passi. Solo pochi passi, e il mare, fuori, è calmo. Fuori ci sono il buio e il silenzio, e il calore delle braccia di Stefano. Fuori.

Accenno qualche saluto. Bisogna sempre salutare, quando si va via. Forse non sono i saluti giusti, ma non mi importa. Voglio solo che finisca in fretta.

Mi alzo in piedi, stordita, come ubriaca. Devo appoggiarmi con i pugni al tavolo, per trovare l'equilibrio. Ma Stefano è qui, qui vicino a me. Sento le sue mani posarsi sulle mie spalle, attirarmi contro di lui in un mezzo abbraccio. Il suo corpo è caldo. Il suo corpo è caldo e forte, e il suo odore ha in sé tutti gli odori della giornata che abbiamo condiviso.

«Mi dispiace», dice.

«Tu non c'entri», rispondo.

E questa volta le sue braccia non fuggono. Mi tengono stretta, abbracciata. E ho la sensazione che abbia smesso di dar peso a quello che succede più in là, che abbia dimenticato di pensare al giudizio degli altri. Usciamo dalla pizzeria ancora vicini, lui contro di me, io contro di lui. Noi.

«Scusami», mormoro, appena il rumore sbiadisce. «Era troppo».

«Non devi scusarti».

«Mi dispiace averti rovinato la cena».

«Dispiace a me averti fatto star male. Non pensavo. Non avevo capito. Non voglio più sbagliare».

«Non sei tu. Io sono così. Sono davvero così. Non posso cambiare. Te l'avevo detto, che non sono fatta per nessuno».

«Non è vero. Guarda. Sei qui, sei con me».

Sono qui. Sono con lui. Forse possiamo. Forse possiamo davvero. Ho solo bisogno di dormire. Di farmi una doccia e dormire. Allontanare dalla mente il rumore, la confusione.

«Non andare via», dico.

«Non vado da nessuna parte», dice.

«Voglio stare con te».

«Mi sembra il minimo», dice. «Già che domani tutto il paese avrà da chiacchierare, che almeno lo facciano per un motivo». 

Saliamo le scale di casa mia, ancora insieme.

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